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29/10/2025 ore 06.30
Cultura

Il Cristo tra arte e cinema: da Mantegna a Pasolini, il dolore che diventa poesia

Due visioni distanti nei secoli ma unite dalla contemplazione della carne, della sofferenza e della compassione umana

di Ernesto Mastroianni

Cinquant’anni dopo la sua morte, il network LaC rende omaggio a Pier Paolo Pasolini con articoli, approfondimenti e speciali Tv. L’appuntamento culminerà il 2 novembre con una giornata intera di memorie e approfondimenti dedicati alla figura e all’eredità del grande intellettuale.

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C’è un momento, nella storia dell’arte e del pensiero, in cui il sacro si spoglia del suo splendore e resta nudo, vulnerabile, dolorosamente umano. Quel momento è il punto d’incontro tra il Cristo morto di Andrea Mantegna (1470-1474) e il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964). Due opere lontane nei secoli ma unite da un unico respiro: la contemplazione struggente della carne di Cristo, della sua solitudine, della sua impotenza di fronte al dolore della morte e del mondo.

In Mantegna e in Pasolini il corpo di Cristo non è più il simbolo trionfante della resurrezione, ma la testimonianza tragica dell’abbandono. È la materia dell’uomo che si consuma nel mistero, il corpo come reliquia della verità. Entrambi gli artisti si chinano su quel corpo non per venerarlo, ma per comprenderlo: per restituirgli la voce degli uomini, per farne il luogo della pietà e dell’amore.

Il rapporto tra Pasolini e la Calabria: il viaggio nel Sud che non si dimentica

Pasolini ha vissuto la fede come un tormento, come una ferita mai rimarginata. Non fu mai credente nel senso confessionale: non frequentava la chiesa, non recitava il rosario, non andava messa, non obbediva a dogmi. Ma la sua incredulità non era negazione: era una forma di fede spezzata, di nostalgia per un assoluto perduto. Egli stesso, in molte interviste, ammise di essere un “non credente che prova nostalgia della fede”. La sua religiosità non appartiene al cristianesimo istituzionale, ma alla radice primitiva e poetica del sacro: la madre, la terra, la povertà, il dolore. È in questi segni umani, terreni, che Pasolini cerca Dio.

Il suo Cristo nasce da questa tensione: non è il Figlio di un Padre celeste, ma il fratello degli ultimi. È un Cristo che parla il linguaggio dei contadini, dei poveri, dei disperati; un Cristo che Pasolini riconosce come immagine di sé stesso, del proprio isolamento e del proprio amore smisurato per l’uomo.

Nel "Vangelo secondo Matteo" — film girato nel 1964 con attori non professionisti e paesaggi aridi del Sud — Cristo è incarnato in un ragazzo severo, magro, con occhi di fuoco. Pasolini lo rappresenta come un rivoluzionario dello spirito, un profeta che parla con voce di rabbia e di dolcezza.

Il suo volto non è trasfigurato dalla luce, ma attraversato da un dolore umano, da una consapevolezza tragica. È il Cristo dell’indignazione, della pietà che non si rassegna, della parola che ferisce perché ama.

Il regista costruisce così un Vangelo povero, spoglio, lontano dall’iconografia tradizionale: nessun miracolo spettacolare, nessuna gloria, solo la povertà dei volti e il silenzio della terra. La fede, per Pasolini, è questo: il contatto con la realtà nella sua nudità più radicale, un atto d’amore verso l’uomo in quanto tale, nonostante tutto.

In questo senso, il Cristo di Pasolini non è una figura teologica, ma un simbolo poetico e politico: la speranza di un mondo redento dalla purezza degli ultimi, la nostalgia di un’innocenza perduta.

Il corpo ferito: il Cristo morto di Mantegna

Il Cristo morto di Andrea Mantegna — dipinto tra il 1475 e il 1480 e oggi custodito alla Pinacoteca di Brera — è una delle immagini più potenti e dolorose della storia dell'arte.

Cristo giace sul sudario, il corpo visto dal basso, in un scorcio ardito che ne accentua la fisicità e la sofferenza. I piedi forati dominano la scena, la testa reclinata mostra la bocca socchiusa, come se trattenesse ancora un ultimo respiro. Ai lati, le figure della Madonna e di San Giovanni piangono in silenzio ma allo stesso tempo esprimono tutto il dolore del mondo: sono presenze discrete, schiacciate dalla pietra del dolore.

L’opera di Mantegna è un grido, un compianto senza speranza. La prospettiva impietosa trasforma Cristo in un corpo terreno, quasi pesante, quasi inerte. Eppure, in quella freddezza marmorea, si avverte il calore straziante della pietà umana. È come se la pittura avesse toccato il limite stesso della visione: Cristo è morto, ma resta il corpo, e in quel corpo si concentra tutta la tenerezza del mondo.

Mantegna non dipinge la gloria, ma la solitudine. Non la resurrezione, ma l’abbandono. Ogni tratto, ogni ombra, ogni vena di quel corpo è una preghiera senza risposta. Il dolore non è spettacolo, ma verità: un dolore che si offre allo sguardo, che diventa forma, che resta inciso nel tempo come una ferita.

Il Cristo di Mantegna è la misura estrema dell’umano: l’istante in cui la divinità tace, e l’uomo è solo davanti al mistero della morte. È lo stesso istante che Pasolini cercherà di riprodurre nel suo cinema, nella carne e nella voce dei suoi personaggi: l’attimo in cui la parola si spegne, ma la verità resta nella carne.


Il corpo come luogo del divino in Pasolini

Pasolini scelse proprio il Cristo morto di Mantegna come una delle fonti visive del suo Vangelo secondo Matteo. Non lo cita mai direttamente, ma la composizione, la fissità del corpo, la frontalità dello sguardo cinematografico rimandano costantemente a quella stessa immagine.

Ciò che lo attraeva non era solo la potenza formale, ma la visione teologica rovesciata: un Dio che non domina ma patisce, che non redime ma condivide la condizione umana.

Nel Cristo di Mantegna, Pasolini riconosceva la propria idea di santità: una santità senza miracoli, fatta di sofferenza e di amore.

Il corpo di Cristo, per lui, è la sede della verità, la sola materia attraverso cui il divino può manifestarsi. Non è un simbolo astratto, ma una realtà concreta, carnale, attraversata dalla morte. In questa prospettiva, Pasolini recupera il senso originario dell’incarnazione: Dio che diventa uomo, che si espone al dolore, che vive la tragedia della carne.

Ecco allora che il Cristo morto di Mantegna e il Cristo di Pasolini non si contraddicono, ma si completano: il primo mostra la fine, l’altro la tensione verso il compimento; il primo fissa la morte come assoluto, il secondo la attraversa con la voce della parola. Entrambi, però, parlano dello stesso mistero: la fede come nostalgia, come ferita che non guarisce mai.

Un Dio umano, un uomo divino

In fondo, Pasolini non credeva in Dio: credeva nell’uomo, ma in un uomo che fosse ancora capace di sacralità. Credeva nella poesia come atto religioso, nel gesto cinematografico come liturgia. La sua fede era laica, eppure ardente: una fede senza cielo, ma piena di luce terrestre.

Nel Cristo del Vangelo, egli riconosceva l’immagine dell’innocenza originaria che la modernità ha perduto. Quella purezza che resiste solo nei volti dei contadini, nei gesti delle madri, nei corpi segnati dalla povertà.

Il suo Vangelo è allora una preghiera per i poveri, una liturgia della realtà, un atto di amore verso la materia stessa del mondo. Il Cristo di Pasolini non salva: comprende, soffre, ama. È un Cristo che ha scelto di restare uomo per sempre, e di condividere la nostra solitudine.

E forse è in questo abbraccio fra arte e dolore, fra fede e disillusione, che Mantegna e Pasolini si incontrano davvero: entrambi fissano la verità della morte, l’istante in cui l’umano e il divino si confondono in un unico, luminoso silenzio.

In Mantegna, il Cristo giace nel silenzio del marmo; in Pasolini, cammina nella polvere dei campi. Ma entrambi parlano la stessa lingua: quella della compassione. Il loro Dio è un uomo che muore ogni giorno, e che ogni giorno — nel dolore, nell’amore, nella poesia — continua a risorgere.