Il Vangelo secondo Matteo: in Pasolini Cristo diventa carne nella polvere del Sud
Nel 1964, un ateo raccontò Cristo come nessuno prima, tra sacralità e dolore in un’Italia che non lo capì. L’Osservatore Romano lo ha definito «il più bel film mai realizzato su Cristo»
Nel 1964 l’Italia si preparava a diventare adulta.
C'è stato il boom economico, la scuola media unica, il centro-sinistra per la prima volta al Governo del Paese con l’ingresso dei Socialisti. La televisione è entrata nelle case e ha acceso i salotti, i treni Freccia del Sud hanno svuotato le campagne e portato a Milano e in tutto il Nord Italia i figli dei braccianti.
Tutti hanno guardato avanti, ma avanti ha significato una sola cosa: dimenticare. Dimenticare la fame, la terra, il dialetto, la polvere, i santi senza altari. Dimenticare chi siamo stati.
E proprio in quell’anno, tra le luci al neon e le promesse di cemento, un uomo solo ha girato il film più cristiano del Novecento. Si chiamava Pier Paolo Pasolini. Comunista. Omosessuale. Poeta. Pluriprocessato. Odiato. Era ateo.
Ma con Il Vangelo secondo Matteo ha compiuto un gesto che ha avuto il sapore di un sacrilegio e di una preghiera: ha riportato Cristo sulla terra.
Un anno prima, Pasolini era già stato crocifisso per aver osato raccontare la fame come tragedia sacra. Con La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G. – dove accanto a lui c’erano Rossellini, Godard e Gregoretti -aveva messo in scena la Passione di Cristo attraverso un povero, una comparsa, un uomo che è morto per indigestione dopo una vita a stomaco vuoto.
Lo Stato, la critica, i benpensanti non avevano capito. O forse avevano capito troppo. Il film è stato sequestrato per vilipendio alla religione di Stato. Pasolini è stato condannato. Quattro mesi, poi l’assoluzione in appello. Ma intanto, come sempre, il processo era già diventato una gogna.
L’opera è tornata sugli schermi solo dopo tagli, mutilazioni, censure. Come se la fame vera fosse stata troppo scandalosa da raccontare. Come se Stracci, povero Cristo inchiodato alla sua miseria, non avesse avuto diritto nemmeno a morire nella verità.
Mentre la Chiesa celebrava il Concilio Vaticano II e si interrogava su come parlare agli uomini del tempo, Pasolini non ha interrogato.
Ha fatto silenzio. Ha ascoltato. Ha preso il testo di Matteo - il più asciutto, il più duro, il più ebraico - e lo ha portato tra le pietre di Matera, negli ulivi della Puglia, sul mare ruvido della Calabria.
Ha trasformato il Sud in Palestina. E i suoi abitanti in apostoli, in poveri, in madri dolenti, in ciechi, in peccatori. Non ha cercato attori: ha cercato volti. Volti che non hanno chiesto, ma sono esistiti. Volti che non hanno recitato, ma hanno vissuto.
Nel 1964, Pier Paolo Pasolini ha portato sugli schermi Il Vangelo secondo Matteo, e con esso ha fatto esplodere non solo un’idea nuova di cinema, ma un’idea nuova di spiritualità, di pietà, di rivoluzione. Quel Cristo che cammina tra i sassi, che parla ai poveri, che guarda senza mai abbassare gli occhi, non è il Cristo dei catechismi. Non è il Cristo della Chiesa di Roma. È il Cristo della fame. Della rabbia. Della giustizia non concessa. Pasolini non era un credente, ma ha creduto nel sacro e nel dolore.
Non ha frequentato le messe, ma ha conosciuto i volti di chi stava sotto la croce ogni giorno: gli emarginati, gli operai, i pastori, le madri sole, i vecchi dimenticati.
Il suo Vangelo non è stato un film sulla religione. È stato un film sul mistero della presenza umana. Sulla grazia senza potere. Sull’amore che non consola, ma accusa.
L’Osservatore Romano – organo ufficiale del Vaticano – ha scritto, quasi a sussurrare una resa: “Il Vangelo secondo Matteo è il più bel film mai realizzato su Cristo.”
Un riconoscimento inatteso. Tardivo. Ma profondo. Perché quel film non è solo cinema. È una preghiera civile. È una via crucis proletaria. È un manifesto laico della tenerezza. Nessuna retorica. Nessun miracolo. Solo verità.
Matera, la Puglia, la Calabria, la Sicilia. Non più paesaggi maledetti, ma terre sacre d’Europa. Le pietre sono diventate altari. Le facce non sono state attori, ma testimoni. Ogni volto è stato un grido. Ogni passo un processo. Ogni parola, rigorosamente tratta dal testo di Matteo, una frattura nel tempo.
Pasolini non ha inventato. Non ha adornato. Ha toccato la materia come si tocca una piaga. Non si è permesso emozioni facili. Ma ha offerto sacralità concreta: fatta di polvere, vento, occhi bassi. Il suo Gesù interpretato da Enrique Irazoqui, ventenne antifranchista, è stato il Cristo del silenzio e della croce. Non ha abbracciato, non ha sorriso. Ha guardato. Ha camminato. Ha predicato. E ha sofferto. È stato un Cristo che non è sceso dalla croce. E non ha chiesto che gli altri ci salissero: ci stavano già.
In una scena, il volto di Maria – quello della madre di Pasolini, Susanna – ha osservato la crocifissione. Non ha urlato. Non si è disperata. Ha pianto senza lacrime. È stato il dolore di tutte le madri. È stato il Vangelo che non serve più predicare, perché è accaduto.
Come Stracci, morto per fame sulla croce dell’indifferenza. Come i ragazzi delle borgate, come i braccianti, come gli emarginati e gli immigrati di oggi, che muoiono senza nessuno che li chiami per nome. Ecco il miracolo.
Un film girato da un ateo, che non voleva convertire nessuno, è diventato il più cristiano dei film. Perché ha ridato al Vangelo la sua natura originaria: non promessa, ma denuncia. non redenzione, ma giustizia negata. Non dottrina, ma amore disarmato.
Martin Scorsese, anni dopo, dirà: “Quando ho visto Il Vangelo secondo Matteo ho capito che il film che volevo fare su Cristo era già stato fatto. E non si poteva fare meglio.”
Pasolini e Scorsese si incontrano nel volto di quell’uomo che predica ai poveri. Quel volto che Pasolini mostra con infiniti primi piani, come se volesse dire: guardate. Guardate bene. Questo è Cristo. Questo siete voi.
E allora cosa resta, oggi, in questa Pasqua smarrita dalle guerre, dal frastuono delle polemiche politiche, dalle file ai supermercati e dal ronzio delle pubblicità?
Cosa resta del sacro, ora che tutto è spettacolo, e ogni croce è diventata gadget?
Resta quel film. Resta la polvere. Resta il Sud come terra promessa e terra calpestata. Resta la fame che non ha risposte. Resta l’umanità che Pasolini ha voluto mostrare, senza filtro e senza paura.
Il Vangelo secondo Matteo è il grido di chi non è stato ascoltato. È la carezza muta di chi non ha parole per spiegare il dolore, ma lo abita. È la Pasqua vista da chi non crede in Dio, ma crede nell’uomo quando soffre, quando lotta e quando piange.
È un atto di amore feroce. Un amore che non chiede nulla in cambio. Come il gesto di Cristo. Come ogni poesia vera. E allora restiamo qui. Senza luci. Senza orpelli. Senza resurrezione da copertina.
Restiamo accanto a quel Cristo stanco, che non è sceso dalla croce, accanto a Pasolini, che non è stato ascoltato. Restiamo nel silenzio aspro e amaro del Sud. Restiamo dove nessuno vuole stare: nel dolore che non redime, nella povertà che non si vende, nella verità che non consola. Perché è lì, solo lì, che ancora una volta, si fa carne il sacro.