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24/06/2025 ore 18.08
Cultura

La luce di Clelia Romano, da Napoli a Gioiosa Jonica a combattere per i diritti delle donne

Scrittrice e giornalista, cresciuta in un ambiente liberale ed europeista coltivò la passione per la lettura e per la scrittura: in soli - purtroppo – cinquant’anni di vita, fece cose incredibili per i suoi tempi

di Nuccia Benvenuto

La donna della quale voglio raccontarvi non è nata in Calabria, ma può considerarsi calabrese a tutti gli effetti per il profondo legame che la unì, indissolubilmente, alla nostra terra, perché, non solo ha assorbito lo spirito femminile delle donne del Reggino e in particolare di Gioiosa Jonica - paese natio del marito - ma lo ha fatto suo. Quando vi mette piede per la prima volta è come se sposasse quella terra e le sue donne in un secondo matrimonio. Un altro connubio di mente e cuore, come già definiva quello col marchese Francesco Maria Pellicano.

Sto parlando di una nobildonna napoletana che fece parlare di sé – nonostante oggi sia sconosciuta - non solo per bellezza e eleganza, assai notevoli, ma soprattutto per il suo attivismo culturale. Cresciuta in un ambiente liberale ed europeista coltivò la passione per la lettura e per la scrittura: Clelia Romano, in soli - purtroppo – cinquant’anni di vita, fece cose incredibili per i suoi tempi.

A cavallo tra Otto e Novecento, tra vecchio mondo e nuovo mondo, Clelia si destreggiava fra Gioiosa Jonica, Castellamare, Napoli e Roma. Scrittrice e giornalista, socia del CNDI, conferenziera al Congresso di Roma del 1908 e delegata a Londra per l’Italia al Congresso Internazionale per il voto alle donne nel 1909: insomma una precursora del femminismo italiano.

Ma fosse solo questo! Insieme alle idee e agli scritti a sostegno delle battaglie che portò avanti, dedicandosi anima e corpo ai diritti di tutte le donne, in primo piano quelle calabresi, ebbe il tempo di mettere al mondo ben sette figli… Una donna che ebbe il coraggio di mantenersi libera da ogni appartenenza culturale, politica, religiosa, ha pagato caro questo sua autonomia che per gli uomini è naturale, ma che alle donne non veniva concessa.

Non era solo un’aristocratica dagli occhi profondi e dal corpo slanciato - nonostante le ripetute gravidanze. No. Clelia Romano, fin da ragazza, aveva trovato nei libri le sue domande, le sue risposte. Il marito - sorprendentemente - la incoraggia nella sua inclinazione letteraria, l’aiuta a cercare un editore, facendo così nascere Jane Grey, pseudonimo scelto da Clelia in onore della sua eroina, la sfortunata regina inglese del XVI secolo.

Partita dall’interesse per i problemi della vita di coppia affrontati con sottile ironia nella raccolta Coppie”, Clelia, nel romanzo “Verso il destino” uno spaccato nudo e crudo della società mondana, la nostra, sente che la vita in Calabria l’ha spinta, ancora di più, sulla strada dei diritti delle donne. Fino a diventare paladina dell’emancipazione. È contro il perpetuarsi della sorda guerra di sesso, che noi femministe insorgiamo.

Con l’inchiesta “Donne e industrie nella provincia di Reggio Calabria”, ha reso non solo onore alle donne nelle cui mani si conserva l’operosità dell’arte del filare, tessere, coltivare i bachi, tingere, confezionare, ma ha denunciato il sistema patriarcale del tempo. Denuncia che è diventata la sua bandiera e che ha approfondito nelle “Novelle Calabresi”. Clelia a Gioiosa sente che deve imparare quel dialetto, calarsi in quella realtà, studiarne i riti, le tradizioni, gli usi. Diventare una di loro.

Non vuole più che le gioiosane, le calabresi, le donne, insomma, siano Schiave come la popolana Aijva, battuta e maltrattata, che resta sempre moglie devota e fedele di Nicoluzzo. Gli interessi se li prendon le altre, ma il capitale è sempre mio! Che volete farci? Son uomini. Tocca a noi donne stare a dovere. Son uomini! Se non c’è vizio ce n’è un altro. Son uomini. Non voglion essere risposti.

La penna di Clelia intinge nel verismo, non è questo che ci si aspetta da una donna che scrive, buon motivo per offuscarla, ma la luce degli occhi stellanti brilla sulle ingiustizie, sui soprusi, sulle privazioni, a danno delle donne. Clelia non si è mai arresa. Questa è la grande lezione che lascia, alle donne calabresi e a quelle di tutto il mondo, perché lei, lo era, libera nell’anima e cosmopolita.

Chiudo gli occhi e la vedo, Clelia adolescente, nella villa di Castellammare o di Posillipo, davanti al golfo di Napoli con la testolina che fuma più del Vesuvio, e poi, donna con le idee già chiare davanti al mare Jonio nel villino di Scinuso o nei salotti culturali all’Arenella o a Monte Mario. Affrontare decisa l’uditorio dei congressi, prima nella sala Orazi e Curiazi del Campidoglio e poi nella sala di San Giacomo a Londra, in perfetto inglese.

E, infine, perdere il marito, la madre, prendere in mano le redini dell’azienda agricola familiare e gestirla con padronanza, ampliarla, educare i figli, affrontare il brutto periodo della Grande Guerra e, purtroppo, andare via ancora giovane, ancora soave, ma appassionata e ironica, per un’infezione dovuta a una spina di pesce. Proprio come - per uno strano scherzo del destino - Marinarella, la protagonista di una sua novella calabrese. 

Aju misu la mè vita a l’antisa cu chija du patri vostru…