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31/10/2025 ore 07.00
Cultura

L’attualità del pensiero di Pasolini: quello che Pier Paolo aveva capito e noi fingiamo di non vedere

Cinquant’anni dopo la sua morte, le sue parole suonano più attuali che mai. L’omologazione che denunciava è realtà: il consumismo ha cancellato le differenze, trasformato le identità in merci e confuso sviluppo e progresso. Viviamo in un mondo più ricco ma più vuoto, più connesso ma più solo. Eppure il suo “no” resiste e ci invita ancora a riflettere

di Francesco Vilotta

Cinquant’anni dopo la sua morte, il network LaC rende omaggio a Pier Paolo Pasolini con articoli, approfondimenti e speciali Tv. L’appuntamento culminerà il 2 novembre con una giornata intera di memorie e approfondimenti dedicati alla figura e all’eredità del grande intellettuale.

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Cinquant'anni dopo, bisogna avere il coraggio di dirlo: Pasolini aveva ragione. Su tutto. O quasi. E questa non è nostalgia, non è retorica da anniversario, non è quella facile mitizzazione degli intellettuali morti con cui ci assolviamo dall'obbligo di ascoltarli quando erano vivi.
Quando negli anni Settanta parlava di genocidio culturale sembrava un visionario apocalittico. Un conservatore travestito da marxista. Un nemico del progresso che rimpiangeva il buon tempo antico. Lo chiamavano reazionario i compagni di sinistra, lo disprezzavano i progressisti, lo attaccavano i benpensanti. Era solo contro tutti.


Quando denunciava l'omologazione produceva fastidio. Di che ti lamenti, gli dicevano, gli italiani stanno meglio, mangiano di più, hanno la televisione, la lavatrice, l'automobile. Non era così che doveva andare? Non era questo il progresso?
Quando prevedeva la mutazione antropologica degli italiani lo accusavano di pessimismo disfattista. Ma che dici, Pasolini, siamo finalmente un paese moderno, europeo, benestante. Dovresti essere contento, tu che ti dici comunista. Il benessere è arrivato anche per i poveri. Non è questo che volevi?
No. Non era questo. E Pasolini lo sapeva. Lo vedeva. Lo scriveva. Ma nessuno lo ascoltava.

Oggi guardi intorno e capisci: non era un profeta. Era solo uno che sapeva leggere. Uno che aveva capito dove stavamo andando mentre tutti gli altri applaudivano il boom economico e credevano che benessere e felicità fossero la stessa cosa, che sviluppo e progresso coincidessero, che più merci significasse più libertà.
Aveva visto giusto. E noi – tutti noi – abbiamo preferito non ascoltarlo. Più comodo. Meno faticoso. Meno inquietante.

Prendi lo smartphone che hai in tasca. Aprilo. Scorri i social. Instagram, TikTok, Facebook, quello che preferisci. Guarda le vite che scorrono sullo schermo.
Tutti uguali. Non lo vedi? Stesse foto davanti agli stessi monumenti. Stessi sorrisi nelle stesse località turistiche. Stesse pose, stesse espressioni, stessi filtri. Vacanze identiche, cene identiche (il piatto fotografato dall'alto, sempre), vite identiche consumate negli stessi brand, negli stessi locali, negli stessi luoghi instagrammabili.
Ognuno pensa di essere unico, diverso, autentico. Tutti si raccontano come individui speciali. Ma in realtà siamo tutti conformi a modelli preconfezionati, tutti docilmente allineati a ciò che Instagram, TikTok, Facebook decidono che debba essere una vita degna di essere mostrata. Anzi: degna di essere vissuta.
È l'omologazione di cui parlava Pasolini. Portata all'estremo. Globalizzata. Digitalizzata. Resa "smart".

La televisione – diceva negli anni Settanta – è "autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo". Non perché censuri, ma perché impone modelli di vita, crea bisogni falsi, plasma le coscienze dall'interno senza che te ne accorga.

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E noi? Noi abbiamo dato in mano ai nostri figli – e a noi stessi – strumenti mille volte più potenti della televisione. Strumenti che non si limitano a trasmettere contenuti unidirezionalmente, ma che ci profilano, ci studiano, ci manipolano in tempo reale attraverso algoritmi che sanno più di noi stessi cosa vogliamo, cosa pensiamo, cosa compreremo domani.
Gli algoritmi sanno cosa desideri prima che lo sappia tu. Ti mostrano solo ciò che conferma le tue idee. Ti chiudono in bolle dove tutti la pensano come te. Ti fanno credere di essere libero mentre ti guidano lungo percorsi prestabiliti. E noi chiamiamo questa prigione "personalizzazione", questa manipolazione "libertà di scelta".
Pasolini lo aveva capito: la tolleranza del consumismo è falsa. "La tolleranza della civiltà consumistica è la peggiore intolleranza", scriveva. "Perché soffoca le coscienze con le cose, con il benessere, con l'omologazione".


Parliamo tanto di diversità, oggi. Di inclusione. Di diritti. Riempiamo le nostre bio social di arcobaleni e bandierine. Le aziende celebrano il Pride Month con campagne pubblicitarie patinate. I politici si dichiarano alleati delle minoranze. Le università istituiscono corsi di studi di genere. I media moltiplicano le rappresentazioni della diversità.
Tutto bellissimo. Tutto giusto. Tutto necessario.
E però.
E però quella di cui parliamo è spesso una diversità di facciata. Una diversità concessa ma non conquistata – direbbe Pasolini. Una diversità che va bene finché si traduce in consumo: compra questo prodotto e sarai libero, indossa questo marchio e sarai te stesso, bevi questa bevanda e apparterrai alla comunità giusta, usa questo hashtag e sarai un alleato.

La diversità vera – quella che mette in discussione il sistema, quella che non si lascia mercificare, quella che dice no al consumo come unico orizzonte di senso, quella che rifiuta di diventare brand – quella continua a essere malvista. Perché quella diversità è pericolosa. Quella non si può vendere. Quella non produce profitto.

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Pasolini amava i sottoproletari delle borgate romane perché erano diversi senza doverlo dichiarare, senza doverlo mettere nella bio, senza doverne fare un'identità
commercializzabile. Erano poveri, analfabeti, ai margini della società. Ma possedevano – diceva – "il mistero della realtà". Avevano una loro cultura, un loro modo di stare al mondo che non era quello borghese. Un'autenticità che non si comprava e non si vendeva.

E proprio per questo il potere doveva cancellarli. Trasformarli in consumatori. Renderli identici a tutti gli altri. Omologarli.
Ci è riuscito. Le borgate di Roma oggi non sono più quelle raccontate in Ragazzi di vita. Sono periferie degradate dove si consuma la stesso schifo che si consuma in centro, dove si guardano gli stessi programmi televisivi (o gli stessi TikTok), dove si sognano le stesse scarpe firmate, dove l'unica differenza con i ricchi è non potersi permettere le cose che i ricchi si permettono.
La povertà di oggi non è più quella autenticamente alternativa, portatrice di una cultura diversa. È solo povertà consumistica: desideri gli stessi beni dei ricchi ma non li puoi comprare. Sei omologato al modello dominante ma escluso dal mercato. È la peggiore delle condizioni.


"Sviluppo senza progresso": è questa l'intuizione più feroce di Pasolini. E la più attuale. La più dolorosamente vera cinquant'anni dopo.
Lo sviluppo – diceva – è la crescita economica, la produzione di merci, il PIL che sale, i consumi che aumentano. Ma questo sviluppo può avvenire senza alcun progresso umano, culturale, civile. Anzi: può avvenire attraverso la distruzione del progresso. Può essere – ed è – regressivo.
Guardiamo l'Italia di oggi. Siamo più ricchi degli anni Cinquanta? Indubbiamente. Abbiamo più cose? Senza dubbio. Siamo più sviluppati economicamente e tecnologicamente? Certamente.
Ma siamo progrediti? Siamo più liberi? Più colti? Più solidali? Più giusti? Più felici?
O siamo solo più omologati, più ansiosi, più soli, più depressi, più infelici nonostante – o forse proprio a causa di – tutto ciò che possediamo?

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Le statistiche parlano chiaro. L'Italia è uno dei paesi più ricchi del mondo ma anche uno di quelli con il più alto tasso di infelicità dichiarata. I giovani – che dovrebbero essere i più fortunati, quelli che hanno tutto, quelli nati nel benessere – sono la generazione più ansiosa, più depressa, più fragile psicologicamente della storia.
Perché? Cosa non ha funzionato?


Pasolini lo sapeva. Lo aveva scritto. Lo aveva gridato. Ma nessuno lo ha ascoltato.
Lo sviluppo lo vogliono gli industriali che producono merci superflue – scriveva. Il progresso lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Sono due cose diverse. Possono anche andare in direzioni opposte.
E infatti sono andate. L'Italia si è sviluppata. Ma non è progredita. È rimasta quella che era: corrotta, clientelare, ingiusta, mafiosa, ignorante. Solo più ricca. E questo, invece di migliorarla, l'ha resa ancora più cinica, ancora più ipocrita, ancora più volgare.


Perché il benessere, di per sé, non rende migliori. Senza progresso culturale e morale, il benessere diventa solo consumismo. E il consumismo – come diceva Pasolini – è il nuovo fascismo. Più subdolo, più pervasivo, più totalitario del vecchio.
Il capitalismo di oggi non è più quello che Marx aveva analizzato nell'Ottocento. Non si accontenta più – come diceva Pasolini – di "un uomo che consuma". Vuole che "non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo".
E ci è riuscito. Guardate la sinistra. Persino la sinistra ha smesso di parlare di classi sociali, di sfruttamento, di rapporti di produzione, di capitalismo. Parla di consumi etici, di sostenibilità, di diversità, di inclusività, di rappresentanza. Tutte cose importanti, per carità. Ma che lasciano intatto – intoccabile – il sistema economico che produce le diseguaglianze.


Si può essere gay, neri, donna, transgender, disabile, di qualunque minoranza. Va tutto bene. Anzi: meglio. Più sei diverso più sei appetibile per il mercato della diversità. Purché tu consumi. Purché tu partecipi al mercato. Purché tu non metta in discussione il fatto che tutto – ma proprio tutto – deve essere merce: il tuo corpo, la tua identità, i tuoi affetti, le tue relazioni, i tuoi sogni, le tue speranze.
Pasolini lo aveva capito: il nuovo potere non reprime la diversità come facevano i fascismi del Novecento. La assorbe. La neutralizza trasformandola in brand. In uno slogan pubblicitario. In un prodotto da vendere. In un segmento di mercato da conquistare.

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La rivoluzione sessuale? È diventata marketing erotico. Il femminismo? È diventato girl power da vendere nelle pubblicità. L'ambientalismo? È diventato greenwashing. L'antirazzismo? È diventato diversity washing.
Tutto viene assorbito, sterilizzato, commercializzato. Tutto diventa merce. Non c'è più niente di veramente alternativo perché tutto – ma proprio tutto – è ormai interno al sistema. È il capitalismo perfetto: quello che non ha più bisogno di reprimere perché ha imparato a vendere anche la ribellione, anche la critica, anche la resistenza.


E i giovani? Che fine hanno fatto i ragazzi del '68 che Pasolini criticava ma di cui riconosceva almeno la sincerità, l'autenticità della rabbia?
Oggi i giovani sono la generazione più controllata, più profilata, più manipolata, più omologata della storia. Cresciuti a pane e algoritmi, formattati dai social media sin dall'infanzia, convinti che la libertà sia scegliere tra iPhone e Samsung, tra Netflix e Disney+, tra Adidas e Nike.


Misurano il loro valore in follower. La loro autostima dipende dai like. La loro identità si costruisce attraverso i brand che indossano e i luoghi che fotografano. La loro felicità si valuta in termini di engagement.
E sono infelici. Tremendamente, drammaticamente infelici. Ansiosi, depressi, fragili. Si suicidano perché il loro video non ha avuto abbastanza visualizzazioni. Si tagliano sulle braccia perché su Instagram tutti sembrano più belli, più felici, più realizzati.

Pasolini scriveva negli anni Settanta: "I giovani sono infelici". Lo scriveva vedendo i primi effetti della mutazione antropologica. Immagina cosa direbbe oggi, vedendo questa generazione di ragazzi cresciuti completamente dentro il sistema, senza nemmeno la memoria di un mondo diverso, senza nemmeno la possibilità di immaginare un'alternativa.


Sono nati consumatori. Non hanno conosciuto altro. Per loro il consumismo non è un'ideologia imposta ma la natura stessa della realtà. È così che vanno le cose. Non si può fare altrimenti. There is no alternative – diceva la Thatcher. E loro ci credono. Non perché siano stupidi, ma perché non hanno mai visto altro.
La mutazione antropologica che Pasolini denunciava è compiuta. Gli italiani – ma ormai possiamo dire: gli esseri umani nel mondo occidentale – sono diventati esattamente quello che il capitalismo voleva: consumatori perfetti, docili, ansiosi di conformarsi, terrorizzati dall'idea di essere esclusi dal mercato, disposti a sacrificare qualsiasi cosa – dignità, autenticità, relazioni, salute mentale – pur di restare dentro il sistema.

Ma non finisce qui. C'è dell'altro. C'è il peggioramento.
Pasolini negli anni Settanta denunciava la televisione come strumento di omologazione. Ma almeno la televisione era unidirezionale. Tu la guardavi, lei ti manipolava, ma c'era ancora uno spazio – almeno potenzialmente – di distanza critica. Potevi spegnerla. Potevi fare altro. Potevi ancora avere una vita fuori dallo schermo.
Oggi non più. Oggi lo schermo è dappertutto. È in tasca, è sul polso, è negli occhiali. È sempre acceso, sempre connesso, sempre pronto a suggerirti cosa fare, cosa comprare, cosa pensare. Non c'è più un fuori. Non c'è più un altrove. Sei sempre dentro. Sempre profilato. Sempre tracciato. Sempre monetizzato.
E la cosa più perversa è che non te ne accorgi nemmeno. Anzi: lo chiami "essere connessi", "restare aggiornati", "non perdersi niente". Lo vivi come libertà mentre è la prigione più perfetta mai costruita. Una prigione dove le sbarre sono invisibili e i prigionieri non sanno di essere prigionieri.

Pasolini parlava di omologazione. Ma almeno negli anni Settanta c'erano ancora sacche di resistenza. C'erano ancora culture locali che sopravvivevano. C'erano ancora dialetti che si parlavano. C'erano ancora modi di vita alternativi.
Oggi non più. L'omologazione è globale. È planetaria. È totale. Un ragazzo a Milano vive esattamente come un ragazzo a New York, a Londra, a Tokyo. Stessi vestiti, stessa musica, stessi film, stessi social, stessi desideri, stessi sogni, stesse ansie.
La diversità culturale è morta. O meglio: sopravvive solo come folklore da vendere ai turisti, come brand da commercializzare, come etichetta da mettere su prodotti che sono identici in tutto il mondo tranne che per il packaging.
Allora cosa facciamo? Ci arrendiamo? Accettiamo che Pasolini aveva ragione ma tanto ormai è troppo tardi? Diciamo che la partita è persa e ci rassegniamo a vivere in questo mondo omologato, consumistico, infelice?
No. Non possiamo. Non dobbiamo.
Perché se è vero – come diceva Pasolini – che "la storia è sempre aperta", allora è possibile ancora scrivere un finale diverso. È possibile ancora dire no. È possibile ancora resistere.
È difficile? Sì. È faticoso? Sì. È doloroso? Sì. È solitario? Sì. Ti isola? Sì. Ti rende impopolare? Sì.


Ma è necessario. Perché l'alternativa è accettare questo presente come l'unico possibile. Accettare di essere consumatori e nient'altro. Accettare che tutto ciò che siamo – i nostri corpi, i nostri sentimenti, i nostri sogni, le nostre relazioni – sia in vendita. Accettare che non esista più nulla di sacro, di inconsumabile, di non mercificabile.
Accettare, in definitiva, di non essere più umani. Ma solo merci ambulanti. Profili da profilare. Dati da estrarre. Target da colpire.
Pasolini non ha accettato. Ha resistito fino all'ultimo. Fino a quella notte a Ostia. Ha detto no quando tutti dicevano sì. Ha pensato con la sua testa quando tutti ripetevano gli slogan. Ha rifiutato l'omologazione quando tutti si adeguavano docilmente.
Per questo lo hanno ucciso. O almeno: questa è una delle possibili spiegazioni della sua morte. Lo hanno ucciso perché era troppo libero, troppo autentico, troppo vero. Perché diceva cose che non si dovevano dire. Perché vedeva cose che non si dovevano vedere. Perché si rifiutava di essere omologato.


Cinquant'anni dopo, tocca a noi scegliere.
Possiamo continuare a vivere dentro la Matrix del consumismo, convinti di essere liberi mentre siamo perfettamente controllati, convinti di essere unici mentre siamo completamente omologati, convinti di essere felici mentre siamo profondamente infelici.
Oppure possiamo provare a svegliarci. A vedere. A capire. A resistere.
Come? Non ci sono ricette facili. Non ci sono soluzioni preconfezionate. Ma ci sono direzioni possibili.
Recuperare la sacralità del mondo – diceva Pasolini. Riscoprire ciò che non si può comprare: la poesia, l'amore gratuito, la solidarietà disinteressata, la bellezza fine a se stessa. Tutto ciò che resiste al consumo, che non si lascia ridurre a merce, che mantiene un valore d'uso e rifiuta il valore di scambio.
Coltivare l'atrocità del dubbio – diceva ancora. Non accettare le verità preconfezionate. Interrogare il presente. Mettere in discussione ciò che sembra ovvio. Pensare con la propria testa anche se costa fatica.
Preservare le culture particolari, i dialetti, le tradizioni locali – aggiungeva. Non come folklore turistico ma come alternative reali al modello dominante. Come prove che esistono altri modi possibili di vivere, di pensare, di stare al mondo.
Distinguere tra sviluppo e progresso – insisteva. Non accettare che più merci significhi più libertà. Non credere che il PIL misuri la felicità. Volere un progresso culturale, civile, umano anche se significa meno sviluppo economico.
Sembra impossibile? Lo è. O quasi.
Ma le cose impossibili sono le uniche che vale la pena tentare. Perché le possibili le fanno già tutti.


Pasolini non ci ha lasciato un programma politico. Non ci ha dato soluzioni pronte all'uso. Era un poeta, non un politico. Un visionario, non un amministratore.
Ma ci ha lasciato qualcosa di più importante: uno sguardo. Un modo di guardare la realtà senza illusioni, senza menzogne consolatorie, senza gli occhiali rosa del progresso obbligatorio.


Ci ha insegnato a vedere. A riconoscere l'omologazione anche quando si maschera da diversità. A smascherare il nuovo fascismo anche quando si presenta come libertà. A rifiutare lo sviluppo senza progresso anche quando tutti lo applaudono.
Ci ha insegnato, soprattutto, che è possibile dire no. Che è possibile resistere. Che è possibile restare umani in un mondo che ci vuole trasformare in consumatori.
Cinquant'anni dopo la sua morte, Pasolini continua a essere una presenza scomoda. Un'accusa vivente. Uno specchio che ci mostra ciò che siamo diventati e che preferiremmo non vedere.
Le sue parole bruciano ancora. Fanno male. Costringono a pensare, a interrogarsi, a mettere in discussione le nostre certezze rassicuranti, i nostri acquisti compulsivi, le nostre vite omologate.
Per questo molti preferiscono ignorarlo. O peggio: celebrarlo in modo rituale, svuotandolo di ogni significato. Trasformandolo – ironia suprema della sorte – in un'icona da consumare. In un poster da appendere. In una citazione da condividere sui social senza capirla davvero, senza metterla in pratica, senza che cambi niente nella nostra vita.


Ma Pasolini resiste anche a questo tentativo di neutralizzarlo. La sua opera – quella "merce inconsumabile" di cui parlava – continua a sfuggire al mercato. Continua a parlare a chi ha orecchie per ascoltare. Continua a dire verità scomode in un'epoca che preferisce le menzogne consolatorie, i like facili, le verità comode.
Allora sì: Pasolini aveva ragione. Il genocidio culturale è avvenuto. L'omologazione è totale. La mutazione antropologica è compiuta. Lo sviluppo senza progresso ha trionfato.
Ma non è l'ultima parola. Non deve esserlo. Non può esserlo.

Perché finché c'è qualcuno che legge Pasolini e capisce, qualcuno che si riconosce nelle sue parole, qualcuno che sente la stessa rabbia, la stessa urgenza, lo stesso bisogno di verità – finché c'è questo, la partita non è chiusa.


È difficile essere eretici oggi. Forse più difficile di allora. Perché il sistema è più perfetto, più pervasivo, più onnipresente. Perché le maglie della rete sono più strette. Perché gli spazi di reale condivisione e di resistenza sono quasi spariti.
Ma non del tutto. Non ancora. C'è sempre un margine. C'è sempre una possibilità. C'è sempre qualcuno che dice no.
Pasolini lo ha fatto per tutta la sua vita. Ha detto no fino alla morte. E quel no continua a risuonare. Continua a essere possibile. Continua a essere necessario.
Cinquant'anni dopo, ci chiede ancora: cosa farai tu? Accetterai o resisterai? Consumerai o creerai? Sarai omologato o sarai eretico?
La risposta che daremo a questa domanda dirà chi siamo. E soprattutto: dirà se meritiamo l'eredità di quest'uomo scomodo, geniale, insopportabile, necessario che ha dato la vita pur di non tradire la verità.


Pasolini merita di essere tradito in molti modi. Ma non in questo: non accettando docilmente ciò contro cui ha combattuto tutta la vita. Non comprando la maglietta con la sua faccia stampata sopra mentre continuiamo a vivere esattamente come il sistema vuole che viviamo.
Non ora. Non dopo tutto quello che ci ha insegnato. Non dopo tutto quello che ci ha dato. Non dopo tutto quello che ha pagato per restare libero.
Non ora che il suo pensiero – maledettamente, terribilmente, drammaticamente – è più attuale che mai.