Le rocce di Alba Florio, i versi di una poetessa calabrese legata alla sua terra
Nata a Scilla (1910-2011) ha iniziato a scrivere sin da piccola e dopo una lenta maturazione artistica ha raccontato gli splendidi paesaggi di un territorio ricco di storia e leggenda
La donna della quale voglio raccontarvi è riuscita a vivere per più di un secolo, ben cento e uno anni vissuti nella poesia. Sì. Ecco una poetessa, schiva e solitaria, per scelta personale. Quando finirà la notte della mia vita / e il vuoto in cui come baco paziente mi sono chiusa, / e la perenne solitudine / che dagli altri mi divide, / e fuori dal tempo / come un'altra / potrò guardare al mondo dei vivi, / allora tutto sarà lontano / semplice e chiaro / dopo il lungo viaggio...
Una lenta maturazione artistica, la sua, iniziata fin da bambina, quando già a nove anni sentì nascere il germe, instillato di certo dal maestro poeta Vann'Antò, pseudonimo di Giovanni Antonio Di Giacomo. Comincia con Estasi e preghiera, muove i primi passi nell’orbita del Pascoli, per arrivare attraverso la parola di Ungaretti e la trasfigurazione di Quasimodo, con Oltremorte e Troveremo il paese sconosciuto, a una voce propria, originale, fino a Come mare a riva. Un itinerario interiore da seguire, verso dopo verso, in un crescendo di forza lirica, di tensione drammatica, di visione filosofica, di potenza espressiva, che dal mare comincia e nel mare finisce. Nella mia terra pietrosa / grandi spazi scavan i venti / che consumano il viso delle rupi / e sull’acque si abbattono in rovina.
Il legame con la sua terra non sarà mai reciso, nonostante gli spostamenti a Reggio Calabria (dove seguirà la madre), Roma (dove seguirà il marito parlamentare), Messina (dove in gioventù frequenta la libreria dell’OSPE e dove tornerà a vivere fino alla morte). Quella paura di dover vivere sempre scaturita dall’impotenza umana nei confronti del destino, quel paesaggio esistenziale interiore, saranno stemperati nella familiare natura: Scilla e la sua rupe, sospesa fra mare e cielo, Scilla e la sua intima, mitica storia. E quando ti immergi nei suoi versi è come se le onde di Scilla sferzassero contro lo scoglio di Ulisse e riportassero in superficie l’eco delle sirene e della solitudine di Penelope.
La costa tirrenica tra rupi, rocce, monti e aride fiumare, viene permeata, mediante la penna di Alba, dal senso della morte che pure, lei, con i suoi versi, pare travalicare in un sentimento cosmico. Il mostro, gabbato da Circe, si ridesta e dà voce a una donna che avverte il dolore dell’esistenza e che riesce a trasformarlo in poesia. Vera poesia. Mi abbatto con le cime lontane / verso il mare. La desolata tristezza iniziale che già Vincenzo Gerace, agli esordi della giovanetta, aveva intuito, si è trasformata nel mistero dell’esistenza, nell’ineluttabilità del tempo che ci lascia flagellati dalla tempesta perenne. Il dolore originario è la colpa di essere venuti al mondo e dell’essere preda del destino. Da antiche trasformazioni / deriva il flutto degli istinti. Anima, paesaggio e cosmo diventano una sola cosa. Una rupe è scesa nel mio cuore. Il conflitto fra l’ora grigia e il colorato mondo che Francesco Spoleti aveva subito percepito, la conduce attraverso un viaggio di emancipazione dagli antichi maestri, a tuffarsi nei flutti di antiche paure, nel mare oscuro, e a risalire a galla nel soffio universale.
E così, nell’Ultima striscia di cielo, l’anima, niente affatto povera, ma intensa nella sua profondità, e il cuore come al fonte l’anfora che trabocca di Alba Florio (1910-2011) prenderanno anche il pennello in mano, per lasciare tracce ancora più visibili di quel paesaggio umanizzato che è la sua poetica. Purtroppo, ancora oggi, per i più, Alba è tutta da leggere e da scoprire, come una nuova primavera, finché un’epoca arriva / di veloci colori, / e gli uccelli danzano coi venti / lungo la seta delle foglie. In quel paese sconosciuto (che lei già aveva trovato dentro di sé) dal quale nessuno è mai più tornato, se non i poeti che sono diventati immortali come gli dei: alberi valicavano montagne / s’addensava il fiato del vento / colombe fermavano l’ultima luce / sulle miti fontane / e s’apriva un’ebbrezza di cadute.