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26/12/2025 ore 17.32
Cultura

Non solo un libro per bambini, l’attualità del “Canto di Natale” di Charles Dickens

Pubblicato il 24 dicembre del 1843 e fin da subito capace di attrarre consensi, ancora oggi parla ai lettori di tutto il mondo e mostra che l’umanità non è un accessorio ma una responsabilità

di Francesco Perri

Se è vero che a volte basta un libro per rimettere in ordine le nostre giornate, allora Canto di Natale di Charles Dickens continua a essere, ancora oggi, una lettura sorprendentemente efficace. Non per la sua ricorrenza natalizia, né perché appartiene a un immaginario rassicurante e già noto, ma perché intercetta una questione che resta aperta anche nel nostro presente: il rapporto tra individuo, denaro e responsabilità sociale.

Pubblicato il 24 dicembre del 1843, il racconto conobbe fin da subito un successo eccezionale. In poche settimane raggiunse numeri di vendita altissimi per l’epoca, nonostante un’edizione elegante e costosa, pensata per colpire anche visivamente il lettore. Ma il dato editoriale, per quanto significativo, non basta a spiegare la forza duratura di questo testo, capace di attraversare quasi due secoli senza perdere incisività.

Il primo grande equivoco da sciogliere riguarda la sua collocazione: Canto di Natale non è soltanto un libro natalizio. L’ambientazione stagionale è un dispositivo narrativo, non il cuore dell’opera. Dickens usa il Natale come lente di ingrandimento, come momento simbolico in cui le contraddizioni sociali emergono con maggiore evidenza. Il conflitto che attraversa il racconto — tra chi accumula e chi resta escluso, tra calcolo economico e legame umano — non conosce calendario.

Il secondo equivoco è quello anagrafico. Non si tratta di un libro “per bambini”, né di un racconto addomesticato per giovani lettori. La sua apparente semplicità nasconde una costruzione narrativa estremamente precisa, quasi meccanica, pensata per produrre un effetto emotivo controllato e universale. Lettori adulti e scrittori di primo piano hanno riconosciuto in queste pagine una capacità rara: quella di smuovere, senza forzature, una forma autentica di compassione.

Robert Louis Stevenson, scrivendo a un amico, confessava di aver letto i Libri di Natale di Dickens «piangendo come un bambino», colpito non solo dalla qualità letteraria, ma da quella sensazione rara di sentirsi, dopo la lettura, spinto a “fare del bene a qualcuno”. Un giudizio spontaneo, lontano da ogni retorica, che coglie con precisione l’effetto duraturo di queste pagine.

Ebenezer Scrooge è diventato un archetipo culturale. Il suo nome è entrato nel linguaggio comune, ha generato innumerevoli adattamenti e persino icone della cultura pop. Ma dietro la caricatura dell’avaro si nasconde una figura più inquietante: un uomo perfettamente integrato in una logica economica che premia l’efficienza e penalizza la fragilità. Scrooge non è un mostro, è un prodotto coerente del suo sistema. Ed è proprio questo a renderlo attuale.

Nel suo percorso, scandito dalle visite dei tre spiriti, Dickens non mette in scena una favola morale, bensì una presa di coscienza. Il passato mostra le radici dell’isolamento, il presente rivela le conseguenze sociali dell’indifferenza, il futuro espone il destino di una vita ridotta a bilancio. La trasformazione finale non è un miracolo, ma una scelta: cambiare sguardo prima ancora che comportamento.

È in questo meccanismo narrativo, calibrato e infallibile, che sembra risiedere il segreto del racconto. Come ha osservato Gianrico Carofiglio, Canto di Natale produce sul lettore una commozione “inevitabile e universale”, indipendente dall’età o dalla formazione culturale.

In un’epoca come la nostra, in cui il linguaggio del profitto tende a occupare ogni spazio — dal lavoro alle relazioni, dal tempo libero alla percezione del valore personale — Canto di Natale continua a porre una domanda scomoda: che cosa resta, quando tutto viene misurato in termini di rendimento?

La forza del racconto sta proprio qui. Non propone soluzioni facili, non indulge nella retorica dei buoni sentimenti, non separa il bene dal male in modo netto. Mostra, piuttosto, che l’umanità non è un accessorio, ma una responsabilità. Ed è forse per questo che, a distanza di tanto tempo, il libro non smette di funzionare: perché non parla del Natale, ma di noi.