I Pagliacci al Rendano: una lettura matura dell’opera di Leoncavallo segna la stagione lirica di Cosenza
Allestimento di forte coerenza espressiva, guidato da una bacchetta autorevole e da un cast ispirato, capace di fondere teatro, musica e danza in una messa in scena di alto profilo culturale
La produzione dei Pagliacci di Ruggero Leoncavallo andata in scena al Teatro di tradizione Alfonso Rendano di Cosenza si è imposta come uno degli esiti più compiuti e consapevoli della stagione lirica, confermando una visione artistica solida, coerente e culturalmente ambiziosa.
Pagliacci è un’opera dalla struttura essenziale e insieme dirompente: un prologo e due atti, racchiusi in una durata relativamente breve, ma di densità drammatica straordinaria. Nel prologo, Tonio rompe la quarta parete e chiarisce il manifesto poetico del verismo: ciò che si vedrà in scena non è finzione, ma vita, carne, dolore autentico. Cosa che, in più di una lettera, ci ha lasciato Leoncavallo stesso.
La vicenda narrata nell'opera si svolge attorno a una compagnia di comici girovaghi. Canio, capocomico, è sposato con Nedda, donna giovane e inquieta, segretamente innamorata del contadino Silvio. Tonio, deforme nel corpo e nell’animo, respinto da Nedda, denuncia il tradimento. Durante la rappresentazione serale, nel secondo atto dell'opera, il confine tra teatro e realtà si spezza: la gelosia di Canio esplode, la finzione si trasforma in tragedia e Nedda e Silvio vengono uccisi sulla scena, sotto gli occhi attoniti del pubblico. Il celebre epilogo – «La commedia è finita!» – suggella una delle più feroci riflessioni sull’umano mai scritte in musica.
La direzione musicale
Il vero fulcro emotivo e musicale della serata è stata senza esitazioni la direzione musicale di Giancarlo Rizzi. Una direzione che non si è limitata a governare il flusso sonoro, ma che ha incarnato fisicamente la musica: Rizzi sembrava letteralmente danzare sul podio, con un gesto elegantissimo, fluido, mai ridondante, sorretto da una competenza musicale di altissimo livello.
La sua lettura ha saputo esaltare il nervo drammatico voluto da Leoncavallo senza indulgere in eccessi, privilegiando un fraseggio teso, scolpito, capace di sostenere i cantanti e di dialogare costantemente con la scena. Le agogiche erano sempre funzionali al teatro, le dinamiche finemente calibrate, i climax costruiti con una naturalezza che raramente si ascolta. Una direzione, in breve, di rara autorevolezza e raffinatezza.
Ancora una volta l’Orchestra sinfonica Brutia si è rivelata una compagine di assoluto affidamento, compatta, reattiva, capace di restituire tanto la violenza tellurica quanto i momenti di lirismo più intimo della partitura. Una “meraviglia” che non si smentisce mai, forte di una maturità sonora ormai pienamente consolidata.
Di alto profilo anche il contributo del Coro lirico siciliano, preparato con cura dal maestro del Coro Francesco Costa, così come il Piccolo Coro di Voci Bianche del Teatro Rendano, diretto da Maria Carmela Ranieri, che ha aggiunto un ulteriore livello di suggestione timbrica.
Fondamentale il lavoro dei maestri collaboratori Mattia Salemme e Luca Moro, nonché la guida all’ascolto e il supporto per il libretto di sala di Marco Calabrese, strumenti preziosi per accompagnare il pubblico dentro la complessità dell’opera.
[Missing Caption][Missing Credit]
I cantanti
Il versante vocale ha raggiunto esiti di notevole rilievo, grazie a un cast complessivamente molto ben assortito.
Serena Gamberoni (Nedda | Colombina | soprano) è stata il vero cuore pulsante della serata. La sua Nedda è apparsa vocalmente luminosa, tecnicamente saldissima, con un controllo del fiato esemplare e un fraseggio di grande intelligenza musicale. A mio giudizio è stata perfetta nell'esecuzione dei (così in gergo chiamati) "filatini", con una tecnica vocale esemplare. Ma ciò che più ha colpito è stata la sua capacità di restituire la psicologia del personaggio: una donna divisa tra desiderio di libertà e paura, tra istinto e costrizione. La Gamberoni ha scolpito una Nedda viva, sensuale, tragicamente consapevole, con un canto che si faceva parola e gesto teatrale.
Aquiles Machado (Canio | Pagliaccio | tenore) ha offerto un Canio di grande impatto emotivo, sostenuto da un timbro generoso e da una presenza scenica carismatica, coerente con il personaggio scritto da Leoncavallo. Il celebre “Vesti la giubba” è stato affrontato con partecipazione autentica, privilegiando una lettura interiorizzata, dolente.
Marcello Rosiello (Tonio | Taddeo | baritono) ha dato vita a un Tonio inquietante, scuro, ben cesellato vocalmente e teatralmente. Il Prologo, vero banco di prova del ruolo, è stato reso con autorevolezza e chiarezza espressiva, mettendo in luce la natura ambigua e corrosiva del personaggio.
Stefano Colucci (Beppe | Arlecchino | tenore) si è distinto per eleganza vocale e per una linea di canto morbida e ben rifinita, conferendo al personaggio una grazia malinconica che ben si inseriva nel tessuto drammatico.
Andrea Piazza (Silvio | contadino | baritono) ha interpretato Silvio con un canto caldo e appassionato, credibile nella sua dimensione amorosa e idealista, riuscendo a rendere palpabile il contrasto con la brutalità del mondo che lo circonda.
Di ottimo livello anche i ruoli di fianco: Emanuele Collufio (Primo contadino | basso) ha mostrato solidità e presenza vocale; Fabio Napoletani (Secondo contadino | tenore) nella prima del 20 dicembre e Moustafa Mohamed Gaber, che ha interpretato lo stesso ruolo nella replica del 21 dicembre, hanno entrambi assolto con precisione e professionalità al loro compito, garantendo continuità qualitativa alle recite.
[Missing Caption][Missing Credit]
Regia, scene, costumi e luci
La regia di Gianmaria Aliverta, che ha scelto di ambientare l’opera negli anni ’50 del Novecento, non è stata accolta in modo unanime dal pubblico. È innegabile che qualcuno possa non aver gradito la decisione di non tenere conto dell’ambientazione originaria a Montalto Uffugo, luogo che Leoncavallo stesso, in più lettere e interviste, ha sottolineato come centrale nella genesi e nel senso profondo dell’opera. La memoria autobiografica e geografica, per Leoncavallo, non era affatto un dettaglio secondario.
Tuttavia, pur nella consapevolezza di questo dato storico e filologico, a mio giudizio, la scelta registica si è rivelata singolare e stimolante: lo spostamento temporale ha permesso di leggere il dramma come una ferita universale, sottraendolo a un folclorismo meramente illustrativo.
Le scene di Francesca Donati, i costumi di Matteo Corsi e il light design di Andrea Rizzitelli hanno contribuito in modo decisivo alla costruzione di un’atmosfera coerente, sospesa tra realismo e simbolo, mentre le coreografie di Filippo Stabile hanno aggiunto un ulteriore livello di movimento e tensione espressiva.
La danza
La Compagnia Create danza ha offerto un contributo di altissimo livello, tanto da far desiderare una loro presenza ancora più ampia in scena.
Tra i solisti, Carola Puglisi è apparsa intensa e magnetica. Francesco Rodilosso energico e incisivo, perfetto nel suo ruolo. Filippo Sbabile elegante e controllato.
Nel gruppo dei ballerini, Raphael Burgo si è distinto per potenza espressiva. Chiara Pucci per grazia e precisione. Francescopio Minio per dinamismo. Karima Caputo per sensibilità interpretativa. Isabella Campisano per equilibrio scenico. Aurora Rendaci per vitalità. Maria Teresa Brunetti per raffinatezza del gesto. Un insieme di danzatori talmente bravi da lasciare il rammarico di non averli potuti ammirare ancora di più in scena.
Fondamentale il ruolo della direzione artistica di Chiara Giordano, che in apertura ha ribadito con chiarezza come la scelta di produrre Pagliacci nella stagione 2025 – così come Carmen – discenda da un progetto triennale incentrato sulla relazione femminile – maschile, con un primo focus dedicato al “femminile”, nella sua dimensione psichica e materica dell’amore, qui declinata in un contesto “popolano e popolare”.
La decisione di non abbinare Pagliacci ad altre opere, come spesso accade con Cavalleria rusticana, è apparsa lucida e culturalmente fondata: il mondo etico ed estetico di Leoncavallo possiede una forza autonoma tale da meritare un’esperienza esclusiva, senza interferenze.
Questa ultima rappresentazione che chiude la stagione lirica del Rendano conferma in modo inequivocabile il livello molto alto raggiunto dal Teatro. Un livello che non è frutto di occasionalità, ma di una progettualità chiara, di scelte coraggiose e di una visione culturale ampia. Pagliacci si è così imposto non solo come uno spettacolo riuscito, ma come un vero atto di teatro musicale, capace di coniugare qualità artistica, profondità interpretativa e rigore intellettuale, confermando il Rendano come uno dei poli più vitali del panorama lirico italiano contemporaneo.