Domenico Marino, un libro per raccontare Pasolini giornalista: «Non si può non essere affascinati dal suo coraggio»
Il volume è un viaggio rigoroso e appassionato dentro a una dimensione spesso trascurata di un grande intellettuale: «C’è ancora tanto bisogno di figure che come lui dicano la verità anche quando è scomoda»
Pasolini giornalista di Domenico Marino è un viaggio rigoroso e appassionato dentro una dimensione spesso trascurata della vita intellettuale di Pier Paolo Pasolini: il suo lavoro da giornalista. Attraverso documenti, ricostruzioni critiche e materiali d’epoca, il volume offre un quadro completo dell’evoluzione di Pasolini come voce pubblica, dagli esordi bolognesi fino agli incandescenti anni corsari e luterani. Marino mostra come la scrittura giornalistica non sia stata per Pasolini un’attività marginale o occasionale, ma una forma essenziale della sua battaglia civile, un luogo di sperimentazione linguistica e di messa a fuoco progressiva delle sue idee.
Il libro ricostruisce le tre grandi stagioni del Pasolini giornalista — il critico, l’eretico, il corsaro-luterano — mettendo in luce l’unità di una voce sempre solitaria, radicale, non allineata, capace di vedere nel Paese mutamenti profondi che molti allora ignoravano.
Il risultato è un libro documentato, scorrevole e necessario, che invita a riscoprire Pasolini come un intellettuale totale, capace di trasformare l’articolo di giornale in un esercizio di poesia civile, analisi antropologica e denuncia politica.
Il vero scandalo di Pier Paolo Pasolini: la sua profezia sul consumismo brucia ancoraCosa l’ha spinta a dedicare un intero volume al Pasolini giornalista, una dimensione spesso considerata “secondaria” rispetto alle sue opere letterarie e cinematografiche?
«Il testo completa un mio percorso accademico all’Università della Calabria, figlio anche della passione per la carta stampata che tanto importante è stata nella vita intellettuale di Pasolini, e in genere nel secolo scorso, mentre oggi vive una fase di transizione che la minaccia alle fondamenta. Comunque ritengo che il suo impegno giornalistico sia cruciale per conoscere davvero l’autore di Ragazzi di vita. Non si può non restare affascinati e coinvolti, a mio parere, dal suo coraggio di non vivere anestetizzati e piegare la schiena, d’essere coerenti con sé e le proprie idee. Anche oggi c’è tanto bisogno di intellettuali che facciano il loro… dovere. Dicano la verità anche quando non è comodo, non conviene. O, come nel caso di Pasolini, trascina in tribunale».
Nel libro lei ricostruisce tre fasi del giornalismo pasoliniano: il critico, l’eretico e il corsaro-luterano. Quale di queste ritiene più decisiva per comprendere l’evoluzione del suo pensiero?
«Vado controcorrente e le dico l’eretico, anche per rilanciare questa fase di passaggio tra gli inizi critici e la celebrata fase corsara e luterana del triennio ’73-’75. È un percorso di maturazione e definizione cruciale per quello che sarà. Il Pasolini eretico si manifesta non soltanto attraverso Empirismo eretico. I “Dialoghi” con i lettori di “Vie Nuove” e gli articoli de Il caos rappresentano un’altra faccia importante di questa stagione. Un’ultima fase saggistica, che potrebbe anche definirsi politica, prima del periodo corsaro e luterano. Manca la violenza, la crudezza e la lingua delle invettive che lo caratterizzeranno in futuro, ma il fondo è lo stesso. L’intellettuale prende coscienza della sua estraneità rispetto a un mondo, una società e pure una stagione politica. Lancia attacchi e discute di attualità. Polemizza e interroga, ma senza la rabbia e l’incisività della fase corsara e luterana. Il bisogno e la voglia di scagliarsi contro il mondo ci sono, ma non si sono ancora imposti, non hanno conquistato un ruolo di primo piano, forte e autorevole. Il grande polemista non è ancora maturo. Tra l’altro gli mancano le opportunità, la tribuna per esprimersi appieno ed essere se stesso».
Pasolini rivendicava spesso la sua “solitudine” come condizione essenziale per dire la verità. Lei crede che questa solitudine fosse una scelta, una condanna o una necessità storica?
«Io da sempre sto con Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuor della terra…”. Pasolini lo era anche per bisogno, oltre che per scelta. E forse ha ragione lei: fu pure una condanna, magari non sofferta troppo. In un pezzo pubblicato nel ’42 su “Il Setaccio”, I giovani e l’attesa, denuncia un senso di solitudine nel ruolo di maestro etico, un altro concetto cruciale, un po’ ambizione un po’ cruccio, per Pasolini. “Noi sentiamo che la nostra ricerca ulteriore dovrà svolgersi in solitudine: amici o gruppi di amici non cesseranno mai d’esistere, perché non verranno mai meno la simpatia umana e la corrispondenza degli affetti, ma noi consideriamo non solo tramontata, ma remotissima, l’epoca delle riviste, delle correnti, degli ‘ismi’, insomma”. Trent’anni dopo il corsaro e il luterano vivono una solitudine angosciosa che lo spingono a scagliarsi contro la società borghese, il Potere e la politica, corrotti e mistificatori. Deluso dai due corni, dalla destra come dalla sinistra, che tra l’altro lo aveva bruscamente messo alla porta, si ritrova a combattere da solo».
Nel volume emergono figure editoriali centrali come Piero Ottone e Giulia Crespi. Che ruolo ebbero realmente nell’apertura del “Corriere della Sera” a una voce così scomoda?
«Fondamentale. Entrambi. Giulia Maria Crespi per convincerlo a scrivere per il “Corriere” e Piero Ottone per accoglierlo, inizialmente nelle pagine interne e poi in prima. I momenti cruciali li raccontano nelle due interviste esclusive presenti nel volume. «Quando Pasolini fu avvicinato affinché collaborasse al “Corriere” era recalcitrante perché era di sinistra mentre il giornale veniva considerato di destra. Per superare le difficoltà proposi a Ottone di parlarci personalmente. Fu una giornata memorabile. Ricordo che parlammo molto dell’importanza della poesia e della bellezza per la vita, la gente, per nutrire lo spirito. Parlammo di spirito e di anima», rivela la signora Crespi. Ottone, invece, ricorda la prima volta in prima pagina. “Era una domenica sera ed eravamo al giornale tutti assieme come non capitava spesso. Gaspare (Barbiellini Amidei, nda) venne nel mio ufficio dicendomi: ‘Piero, la prima pagina mi pare un po’ moscia. Ho qua un bel pezzo di Pasolini, che dici, lo mettiamo?’. Non ricordo bene quale argomento trattasse, ma diedi il consenso e così per la prima volta Pasolini andò in prima pagina. Il giorno dopo Giulia Maria Crespi mi chiese: ‘Piero, come mai Pasolini in prima pagina?’. Ma lo fece con molto garbo, senza alcun tono di dissenso e men che meno arrabbiata. Era semplicemente stupore. Le dissi: ‘Mi pare un bel pezzo, e poi tutta Milano ne parla’”».
Secondo lei, quale aspetto del Pasolini giornalista continua a parlarci con maggior urgenza nell’Italia contemporanea?
«La lucidità dell’analisi, il coraggio della denuncia e l’onestà intellettuale. Ma anche la capacità di miscelare cronaca e narrativa come nel famoso pezzo in cui racconta il progressivo decadimento del mondo, trasfigurandolo nella metafora delle lucciole. Un Paese cambiato, dove prima c’erano le lucciole che invece cominciavano a sparire. Prima i vecchi valori dell’universo agrario e paleo capitalistico resistevano con la Dc al potere. Dopo, di colpo, gli stessi elementi cardine non contavano più, sostituiti da un nuovo tipo di civiltà, completamente diversa rispetto a quella contadina e paleoindustriale».