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20/07/2025 ore 18.08
Cultura

Raoul Maria de Angelis: la Calabria come avamposto delle nostre contraddizioni

Proseguiamo con i nostri ritratti di scrittori calabresi che, con la loro particolare disposizione intellettuale, con un'idea o una curvatura dello stile, hanno contribuito in maniera decisiva a definire l'anima di una regione, segnalandone un aspetto inatteso ma sostanziale

di Alessandro Gaudio
Raoul Maria de Angelis

Raoul Maria de Angelis nasce nel 1908 a Terranova da Sibari, piccolo centro in provincia di Cosenza a venti chilometri dalla costa ionica, in una famiglia agiata, italo-albanese da parte di madre. Il padre, Ernesto, è un impiegato delle poste. De Angelis lascia la Calabria già alla fine degli anni venti per iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma. Dopo aver abbandonato gli studi, rimarrà nella capitale, dando inizio alla sua attività intellettuale che poi lo vedrà scrittore prolifico e giornalista di successo, ma anche poeta, pittore e critico d’arte. Proprio a Roma morirà nel 1990, lasciando la moglie tedesca, Erika Loeb, e due figlie.

Tra il 1936 e il 1943, pubblica i suoi primi romanzi, Inverno in palude, Oroverde, La peste a Urana. Sono tutti segnati da una visione in cui la rappresentazione storica e ambientale si traduce in forme narrative allucinate, ma non per questo meno radicate alla realtà, nello specifico a quella dello Ionio cosentino. Se la dimensione simbolica domina, i riferimenti alla condizione psicologica, sociale e territoriale della Calabria, in particolare della piana di Sibari, sono tutt’altro che assenti. Al contrario, proprio attraverso la sua capacità di trasfigurazione, de Angelis elabora una forma singolare di narrazione che non mima il reale, ma ne condensa gli elementi strutturali e interiori: la marginalità, la fatica fisica, il dominio della natura sull’uomo, la stagnazione economica, l’isolamento passano tutti dal vaglio individuale.

Inverno in palude esce nel 1936, seppur scritto già nel '31. Ambientato nella piana di Sibari, il romanzo si apre su un paesaggio segnato da malaria, acque stagnanti “cieche e crudeli”, nebbie persistenti, in cui l’uomo vive a stretto contatto con una natura che non riesce a dominare e che, anzi, tracima nei personaggi, diventa parte di essi: “La sua vita somigliava a quella della pianura: dapprima felice e ordinata in uno sviluppo generoso e fecondo – gli orti che continuavano le piantate di alberi dolci dei fianchi collinosi – poi piena di buche e di acque di arresti e di deviazioni, e infine la palude stagnante, senza un fiore o una luce serena, e la solitudine impietrita come un deserto senza miraggi”: la citazione, tra le più esemplari, suggerisce la sovrapposizione tra ambiente e soggetto, in questo caso Don Angelo Gruerio, tra clima e coscienza. Le condizioni di vita che de Angelis descrive corrispondono a una fase storica precisa: prima delle bonifiche sistematiche, la piana era zona insalubre, segnata da povertà diffusa, dalla difficoltà di accesso alla terra e da una cronica dipendenza dal lavoro agricolo stagionale. I personaggi del romanzo abitano case basse, si muovono in un paesaggio fangoso, parlano poco, attendono. Parallelamente, anche la scrittura si fa lenta, vischiosa. Il tempo narrativo è ciclico e le stagioni, soprattutto l’inverno con il suo carico di immobilità e febbre, scandiscono l’esistenza molto più di quanto facciano le azioni o le decisioni individuali.

Con Oroverde, pubblicato nel 1940 ma scritto nel '37, de Angelis colloca ancora la vicenda nella piana di Sibari, ma accentua ulteriormente l’elemento visionario. Al centro della narrazione vi è l’oro verde del grano che si contrappone alla “pianura giallastra” che “aveva il colore della sete”. Allo stesso modo i braccianti e i pastori, gli uomini della collina, rudi e impenetrabili, si oppongono agli usurpatori, a quelli della bonifica, “quelli che guastano la terra, giorno per giorno, che fanno morire i cavalli di insolazione, che hanno macchine per rubare il lavoro ai mietitori”. Si tratta di una contrapposizione destinata a diluirsi progressivamente in un orizzonte più ampio all'interno del quale la pianura non è deturpata da arnesi diabolici, ma si rivela una terra nuova, da ripopolare. Sembra che i limiti infrangibili di un destino logorato dal male, e dunque segnato per sempre, possano essere messi in discussione: “i pantani colmi di buona terra e di pietra, le strade pressate e rese dure da una pasta elastica, l'erba bruciata e i cespugli sradicati, le case rinnovate dalla calce, le strade sgombre e pulite come canali di vetro” traboccano di speranza. Se la terra non è stata guastata ed è, anzi, protetta e nutrita, se la pianura è edificabile e le piante e gli animali sono amati, allora può nascere un nuovo giorno.

La peste a Urana, scritto nel 1942 e apparso in volume l'anno successivo, è forse l'opera più nota di de Angelis. Si distacca in parte dai romanzi precedenti, ma possiede la stessa disposizione ad allargarsi in un paradigma universale: Urana è una città senza una collocazione precisa, affetta da un morbo al quale l'autore contrappone il contagio della lussuria e della chiacchiera, diffuso per tutto il paese vicino di Lupigna (anch'esso immaginario) dal giovane protagonista, Giovanni, che è scampato alla vera peste. La vera epidemia, la segreta malattia del sangue, è l'effetto di un disfacimento interno, già presente nei corpi e nei luoghi. Si tratta di un vizio segreto, di uno stato latente e infido, una fine che non arriva, ma che si rivela come condizione abituale che contribuisce alla sparizione del linguaggio condiviso e alla solitudine di chi è sopravvissuto. È come se il paese si svuotasse inesorabilmente, non per violenza improvvisa, ma per progressivo logoramento. La riflessione sulla crisi delle strutture comunitarie, sulla perdita di legame sociale, sulla scomparsa della parola pubblica, assume, così, un rilievo più forte. Il paesaggio ha tratti realistici, ma mai calligrafico: a esso de Angelis somma un clima morale, un’atmosfera di vuoto che rimanda al Mezzogiorno inteso come luogo escluso dai grandi processi storici, segnato da una lenta erosione delle funzioni collettive, incapace di immaginare il futuro.

I tre romanzi, ma de Angelis fu prolifico narratore in breve, condividono una medesima struttura poetica: l’umano è sempre esposto a un ordine che non comprende, che lo attraversa, che lo modifica e al quale ci si può sottrarre, ma solo a determinate condizioni. La scrittura si adegua a questo ordine esistenzialistico: è densa, ripetitiva, ipnotica, con effetti spesso espressionistici. Il tempo è fermo, l’azione essenziale, ma dal ritmo indiavolato. Permane una condizione, come se ogni elemento fosse già compiuto, già deciso. In questo senso, l’opera di De Angelis si colloca fuori dai generi dominanti dell’epoca, ma resta fortemente connessa alla realtà, proprio nel momento in cui scegli di superarne i limiti convenzionali.

Rileggere oggi Inverno in palude, Oroverde e La peste a Urana significa confrontarsi con una rappresentazione indiretta ma acuta del rapporto tra natura, storia e marginalità della coscienza. La piana di Sibari, al centro dei primi due romanzi, è una regione reale, descritta senza rilievi sociologici o oleografici nel momento della sua trasformazione incompiuta: il passaggio da terra malarica e abbandonata a zona di sperimentazione agricola e promozione colonica. Tuttavia, ciò che de Angelis mostra è il fallimento profondo di questo passaggio: la palude continua a espandersi, l'oro verde cura e intossica, il paese muore senza saperlo. La Calabria che attraversa i suoi testi non è solo oggetto da raccontare, ma luogo che agisce sui corpi e sulle menti, che condiziona il linguaggio, che determina le forme di vita. De Angelis scrive da dentro l’allucinazione, come se la parola fosse già oltre l’umano: in lui la parola si fa più grave, ma diventa fondamentale per narrare un'apocalisse senza ironia, per costruire un universo magnetico, ossessivo, in cui essa è l’unico strumento possibile per dire ciò che, anche a distanza di anni, fatica a essere detto.