Sezioni
Edizioni locali
13/11/2025 ore 11.06
Cultura

Sarà Dancairo nella Carmen al Teatro Rendano, il tenore calabrese Papasodero: «Sul palco porto l’umanità più vera»

In un’intervista il giovane racconta la sua crescita artistica, il legame profondo con Puccini e la disciplina che trasforma il dono in arte. Il 14 e 16 novembre debutterà a Cosenza nel ruolo di Dancairo 

di Ernesto Mastroianni

Lorenzo Papasodero, tenore lirico in costante evoluzione, è animato da una profonda e instancabile volontà di crescita e perfezionamento artistico. La sua carriera, già ricca di esperienze significative, lo vede protagonista di numerose collaborazioni con festival e teatri italiani, europei e intercontinentali, attraverso prestigiosi debutti in alcuni tra i più celebri titoli del repertorio operistico: La Bohème, La Traviata, Madama Butterfly, Cavalleria Rusticana, L’elisir d’amore e Carmen. Tra le sue collaborazioni più rilevanti si annovera il Festival Puccini di Torre del Lago. La sua voce, calda e duttile, ricca di armonici gli ha permesso di affermarsi come interprete sensibile e appassionato, capace di coniugare rigore tecnico e intensità espressiva.

Una laurea in Ingegneria, oggi chiusa nel cassetto, per seguire la sua passione e vocazione per il mondo dell'opera lirica. Il prossimo 14 e 16 novembre debutterà al Teatro Rendano di Cosenza nel ruolo di Dancairo nella Carmen di Bizet. Lo abbiamo raggiunto durante le prove, per ragionare con lui su questa nuova avventura e sulla passione che muove il suo cammino musicale.

Lorenzo, negli ultimi anni la tua carriera ha vissuto un’evoluzione straordinaria, tra debutti in teatri italiani e collaborazioni internazionali. Come descriveresti la tua crescita artistica e personale?
«È stato un percorso di continua scoperta e maturazione. Ogni ruolo e ogni teatro mi hanno aiutato a comprendere meglio la mia voce e l’anima di ogni personaggio. Dal debutto come Rodolfo ne La Bohème fino a ruoli come Turiddu, Pinkerton o Don José, ho cercato di unire rigore e passione, imparando da ogni esperienza. Il Festival Puccini di Torre del Lago ha avuto un ruolo centrale nel mio percorso, così come le esibizioni all’estero, che mi hanno fatto percepire la forza universale dell’opera italiana. Credo che la mia crescita derivi proprio da questo: dal desiderio costante di migliorarmi e dall’emozione autentica che provo ogni volta che salgo sul palcoscenico».

Quando ha capito che la voce non era solo un dono, ma una strada da percorrere fino in fondo?
«
Non c’è stato “quel” giorno. È stato un processo lento, quasi silenzioso.Da bambino la voce era un gioco, poi è diventata bussola. Nel momento in cui ho capito che la mia giornata era costruita tutta “intorno allo studio”, e che io mi sentivo vivo solo se potevo migliorarmi, lì ho capito che non era un talento da conservare, ma una strada da spingere fino in fondo. E soprattutto, ho capito che il dono, senza disciplina, non vale nulla. La voce è un punto di partenza, non un arrivo».


 

Quando sali sul palcoscenico per cantare o per interpretare un ruolo operistico cosa senti nel profondo?
«Avverto una responsabilità enorme. Verso la musica, verso il testo, verso il compositore, verso il pubblico… C’è un patto molto serio alla base: “sto per raccontarvi la verità che ho dentro, senza difese”. E la cosa più bella è che sul palco il corpo cambia la propria dimensione per far rivivere il carattere e le emozioni del personaggio che vai ad interpretare. Il canto dovrebbe essere proprio questo: un atto di servizio verso la partitura, il compositore e il proprio pubblico, affinché la voce e il corpo possano essere un vero e proprio vettore di emozioni».


Se potessi vivere in un’opera per sempre, quale sceglieresti e perché? 
«Sceglierei di vivere sicuramente in una qualsiasi opera del Maestro Giacomo Puccini. Il suo genio non ha mai contemplato un disegno musicale fine a sé stesso…Nei suoi capolavori c’è infatti psicologia, carne, dolore, desiderio, contraddizione. In sintesi le sue opere non sono soltanto riconoscibili per via di una “musica straordinaria” ma soprattutto per il carattere dei suoi personaggi: persone reali che amano e soffrono come noi. Vivere per sempre dentro Puccini vorrebbe dire vivere per sempre vicino all’essere umano, accettandone i suoi pregi, i suoi difetti e le sue zone d’ombra. Per un interprete è il più grande terreno di verità. è l’opera che più avvicina il teatro alla vita vera».


Hai dato ampia voce ai tormenti e agli slanci dei protagonisti pucciniani. Cosa ha messo maggiormente alla prova, del repertorio di Puccini, la tua sensibilità umana oltre che vocale? In quale personaggio ti riconosci principalmente?
«Si, Puccini ti costringe ad un certo tipo di sincerità emotiva e ti chiede di sostenere psicologicamente il peso di pagine musicali dove l’essere umano è sempre sul limite: tra desiderio e rinuncia, tra vita e perdita, tra amore e disperazione. Quindi quello che mette di più alla prova noi interpreti non è mai l’acuto o la frase in sé, bensì il dover scavare ogni volta dentro parti molto intime di sé stessi, portandole in scena con lucidità e disciplina. Ti direi Rodolfo e non per la sua parte “romantica” – ma per la sua natura di uomo semplice che si illude di avere il controllo, e invece la vita lo travolge. Perché la verità è che quando ami davvero… non governi più nulla. E poi… Sarò controcorrente? Anche Pinkerton. Lo so, è odiato. È impulsivo, superficiale, sbaglia tutto. Molti colleghi non amano calarsi nella sua psicologia proprio per questo. E invece, proprio lì, c’è l’umanità più fragile: l’incapacità di riconoscere il valore dell’amore mentre lo si sta vivendo. Quella inconsapevolezza emotiva che scopri solo dopo — quando è troppo tardi — è qualcosa che, credo, sfiori molti esseri umani».


C’è stato un incontro, una conoscenza esemplare e folgorante nella tua carriera che ti ha cambiato?
«Gli incontri che segnano nella nostra carriera sono pochi, veri e profondi. Il primo vero maestro che ha creduto in me quando pochi altri lo avrebbero fatto, quello ha cambiato tutto. E poi ogni incontro successivo è stato un livello in più: un maestro, un direttore, un regista, un collega. Alcuni mi hanno insegnato a stare sul palco, altri ad ascoltare meglio, altri a scavare dentro la parola. Nessun cantante è mai “solo frutto di sé”: siamo il risultato di tutte le persone che ci hanno dato una chiave, uno sguardo, una frase giusta nel momento esatto in cui ci serviva».


Cosa ti ha affascinato di più del personaggio che interpreta in Carmen? Ovvero quello di Dancairo, il contrabbandiere dell'opera?
«Dancairo vive nelle zone grigie. È un contrabbandiere, è dentro la vita “fuori legge”, ma ha una sua etica, una sua logica, una sua libertà. È un personaggio “di frontiera”. E interpretare un personaggio così ti permette di portare sulla scena un’umanità laterale, meno “pulita”, ma molto vera. Carmen è un’opera dove tutti sono in lotta con l’amore e con il destino.  Dancairo porta proprio l’odore della strada, dei margini, della vita reale. è il più esperto, è quello che “conduce” il quadro del contrabbando, quello che dà la linea, quello che traduce i piani in azione concreta. È questo che mi ha affascinato: la possibilità di far vivere sul palco un’umanità che non è patinata… ma cruda, sincera, vera. Proprio per questo ho immediatamente accettato di essere presente in questa produzione di Carmen nello splendido Teatro Rendano di Cosenza all’interno di un cast superlativo».

A Lorenzo auguriamo un debutto straordinario in questa Carmen al Teatro Rendano, certi che saprà conquistare il pubblico con il suo talento e la sua intensità interpretativa. Le doti vocali e sceniche non gli mancano, e siamo sicuri che questo sarà solo un ulteriore passo in un percorso artistico destinato a brillare.