Saverio Marra, il fotografo calabrese che con i suoi ritratti faceva tornare i defunti a sedere tra i vivi
Morì il 17 ottobre del 1978 nella sua San Giovanni in Fiore lasciando una ricca eredità fatta di lastre e immagini di un Mezzogiorno silente. Ecco la sua storia
San Giovanni in Fiore, quel paese aggrappato alle balze della Sila, sa custodire i suoi segreti come le nebbie che avvolgono i pini nei gelidi inverni. Qui, il 17 ottobre 1978, spirava Saverio Marra, l’uomo che non si limitava a catturare l’attimo, ma lo rendeva eterno in un abbraccio gelido con l’eterno. A quarantasette anni esatti da quel giorno, mentre il vento autunnale sibila tra i vicoli stretti del rione Cappuccini, dove un tempo sorgeva il suo studio improvvisato, ci fermiamo a sfogliare le sue lastre dimenticate, ma non da tutti. Non quelle dei matrimoni festosi o dei comizi fascisti forzati, ma quelle più intime, più crude: i ritratti dei defunti, i “paesani morti” che, nella luce fioca di una camera oscura, tornavano a sedere tra i vivi. Saverio Marra era un fotografo, un tessitore di memorie, un ponte tra il fiato caldo della vita e il silenzio della terra umida. Nei suoi scatti, il paese non appare come una cartolina pittoresca, ma come un teatro di presenze assenti, dove la morte non è fine, ma eco perpetua.
Saverio Marra, nato nel 1894 in una famiglia di contadini borghesi, primogenito di cinque figli, con un padre fattore e una madre, Clarice Urso, che gli infondeva la tenacia silana. Autodidatta fino al midollo, con sole le prime classi elementari alle spalle, Marra era un poliedro umano: contadino nei campi di Meteriri e Misuolo, carpentiere che rinforzava i cerchioni dei traini trainati da buoi, apicoltore che sussurrava ai favi come a vecchi confidenti, persino venditore di radio e motociclette in un vano tentativo di cavalcare la modernità. Ma fu la fotografia a reclamarlo, come una vocazione arcana. Nel 1919, reduce dalla Grande Guerra – dove, sanitarista al fronte, aveva già immortalato feriti e degenti in un’anticipazione macabra del suo destino –, investì i suoi risparmi in una Zeiss tedesca, con soffietto e treppiede, uno strumento che sembrava uscito da un sogno espressionista. Da allora, per oltre trent’anni, fino al 1946, il suo obiettivo divenne lo specchio di San Giovanni: ritratti per passaporti di emigranti diretti oltreoceano, famiglie posanti con lo sguardo perso verso un futuro incerto, eventi collettivi che scandivano il ritmo di una comunità marginale, feudo di baroni e ombre fasciste.
Eppure, è nei suoi scatti post mortem che Marra rivela la profondità di un documentarista, di un artista viscerale, di un antropologo per caso che fissava l’imago mortis, quell’immagine della morte radicata nella tradizione latina, che non è mera effigie del cadavere, ma un simulacro vivente, un’eco dell’anima che resiste al trapasso. Nel Rinascimento, l’imago mortis evocava la vanitas, i teschi e le clessidre che ammonivano la fugacità del tempo; nel folklore meridionale, si tramutava in ritratto funebre, un talismano contro l’oblio. Saverio Marra lo elevava a rito collettivo. E in un’epoca senza smartphone o obitori moderni, le famiglie lo convocavano nottetempo, con la bara eretta in posizione verticale, non per posa artistica, ma per la rigidità dell’obiettivo, poco duttile con gli angoli stretti. I defunti, spesso bambini o anziani logorati dalla malaria silana o dal lavoro nei boschi, venivano abbigliati come per una festa: il rosario stretto tra le dita ceree, un fiore reciso tra i capelli, lo sguardo velato dal velo della morte stessa. Una lastra inedita, rinvenuta tra le circa 2500 conservate nel Fondo fotografico del Museo Demologico dell’Abbazia Florense – e qui attingiamo a un dettaglio poco noto, se non ricordo male, emerso da alcune note forse manoscritte del nipote Pietro Mario Marra negli anni ’80 –, mostrerebbe una giovane sposa di Meteriri, morta di parto nel 1932: il volto sereno, quasi sorridente sotto il bianco del velo nuziale, la mano posata su un cuscino di lino come se cullasse un figlio mai nato. Non orrore, ma continuità: quel ritratto, appeso in casa, testimoniava la “presenza” della trapassata ai pasti familiari, un ponte tra il qui e l’aldilà, in una visione antropologica che Marra aveva mutuato dai campi di battaglia, dove la morte era “avvenimento normale nella storia degli umani”. Non l’ho mai vista, questa foto. Vorrei vederla e, quindi, mi precipito a sentirmi telefonicamente con Pietro Mario prima di andare online, ma senza successo. Neanche Pietro, che le lastre fotografiche le ha toccate proprio tutte, si ricorda di quel particolare.
Quelle lastre, ritrovate nel 1980, non sono reliquie polverose, ma pagine vive di un diario collettivo. Francesco Faeta, l’antropologo che le ordinò e ci rifletté in modo critico post mortem con il figlio Donato e il nipote Pietro Mario, le definì “immagini del mondo popolare silano”. Non freddi documenti, ma scambi emotivi, dove il fotografo si fa complice. In una sequenza inedita, datata 1935 dal cimitero del paese silano, Marra cattura un contadino di Misuolo, il volto segnato dalle rughe dei solchi arati, la bara aperta su un carro trainato da muli; accanto, i familiari in lutto, ma con un’espressione di quieta accettazione. Qui, l’imago mortis si fa memento: non celebra la fine, ma la radica nella catena delle generazioni, contro l’emigrazione che svuotava i paesi come San Giovanni, con il suo alto tasso di partenze transoceaniche. Marra, costretto a fotografare i gerarchi fascisti con la forza, trovava rifugio in questi atti privati, dove la morte non era spettacolo politico, ma abbraccio comunitario. Dopo la Seconda Guerra, segnato dalle commissioni belliche, abbandonò l’obiettivo per ritirarsi in campagna, riprendendolo solo per eventi familiari. Ma il suo lascito fu un museo che respira, un luogo vivo, con 190 stampe esposte nell’Abbazia Florense, e mostre come quella del 1983 nel paese natio o del 1984 a Palazzo Braschi a Roma, che dipinsero un Mezzogiorno non di miseria esorcizzata, ma di identità profonda e ferrea.
Oggi, mentre il mondo scorre in pixel effimeri, gli scatti di Marra ci interrogano: che ne è dell’imago mortis in un’era di filtri e oblio digitale? Lui, con la sua Zeiss e il suo cuore silano, ci insegna che fotografare i morti non è profanazione, ma redenzione. È il modo in cui i paesani – quelli di ieri e di domani – continuano a sussurrare: “Siamo qui, non ci lascerete andare”. In questo 17 ottobre, a San Giovanni in Fiore, contempliamo una delle tante foto di Saverio Marra, affinché le sue lastre, come anime silenziose, veglino ancora sui vivi.
*Documentarista