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26/07/2025 ore 07.40
Cultura

Tre esperienze di pre-morte, una missione spirituale e un ponte tra due mondi: arriva in Italia l’arte di Wu Keyang

È uno dei maggiori artisti contemporanei della nuova avanguardia cinese. Seguace di Jung, del Tao e dell’arte classica, vive la pittura come linguaggio universale. A Firenze la sua personale, fino al 1° agosto: «Il mio cognome? Si pronuncia come un altro carattere, ma è scritto diversamente. Come la mia storia: familiare in apparenza, misteriosa nel profondo»

di Luca Arnaù

Apre il sipario il suono di un nome: Wu. Un cognome che in cinese si pronuncia sempre allo stesso modo, ma può essere scritto con ideogrammi profondamente diversi.

Può essere 吴, semplice e comune. Oppure 武, il segno che fonde la lancia (戈) e il fermare (止), e che dunque non significa guerra, ma “arte di fermarla”. E infine 無, il vuoto, l’assenza, il Tao che non si può dire. Tre simboli per un solo suono.

E forse anche tre anime per un solo artista. Perché in Wu Keyang ogni pennellata è soglia, ogni segno è un passaggio tra mondi. Ciò che sembra noto, nasconde una verità più profonda. La sua intera opera, come il suo nome, è un invito a guardare oltre la superficie.

Cosa resta oltre la forma? Quale voce sussurra nel silenzio tra spirito e materia? A tentare di rispondere, con colori e visioni, è proprio Wu Keyang, protagonista della mostra personale “Beyond the Form, Within the Cosmos”, che si tiene a Firenze fino al 1° agosto 2025, nelle sale storiche di Palazzo Bellini.

L’evento, promosso da Hestia Gallery, rappresenta la terza tappa italiana dell’artista negli ultimi tre anni, dopo le esposizioni a Venezia e Milano. Un percorso coerente che sta contribuendo a far conoscere anche in Occidente il linguaggio originale e profondo di questo pittore “filosofo”.

In mostra, oltre 30 grandi oli su tela e quasi 80 disegni della serie “super-imaginale”, in cui Wu scava nel rapporto tra essere umano e cosmo, dissolvendo i confini tra pensiero e materia, tra visibile e invisibile. A curare la rassegna, Stefano Bigalli, Andrea Betro e Wu Changbei.

Wu Keyang, nelle tue opere c’è un dialogo costante tra culture orientali e occidentali. Quando è cominciato questo confronto interiore?
«Credo da sempre, ma è durante gli anni dell’università che ne ho preso davvero coscienza. Studiavo pittura a olio, ma anche filosofia occidentale: Socrate, Platone, Nietzsche… È stato Jung, però, a colpirmi più di tutti. Con lui ho capito che esisteva un ponte possibile: Jung era occidentale, ma cercava l’Oriente. Il suo Libro Rosso, ispirato al taoismo, è diventato per me un riferimento. Mi ha fatto sentire che quello che cercavo non era solo mio: era un cammino condiviso».

È stata la filosofia a orientarti verso questo cammino artistico?
«Anche. Ma soprattutto l’esperienza pratica della pittura. Dipingo a olio, e mi sono accorto che spesso il pubblico cinese guarda solo se l’immagine è realistica. Non percepisce il livello spirituale. Allo stesso modo, molti occidentali trovano la cultura orientale affascinante, ma distante, quasi esotica. Io volevo colmare questo vuoto. L’arte, per me, è trasmissione di spirito. Come nell’arte medievale europea: non c’era solo tecnica, ma desiderio di toccare il Vero».

Che ruolo ha la cultura tradizionale cinese nella tua ricerca?
«È la mia radice. Ho praticato a fondo Confucianesimo, Taoismo e Buddhismo, soprattutto la “coltivazione del cuore”, che è una forma di elevazione della coscienza. Non è teoria: è esperienza viva. Anche per questo la mia pittura è cambiata. Dopo tre esperienze di pre-morte, ho sentito una chiamata chiara: rappresentare ciò che avevo visto e compreso. Per me l’arte è una missione».

Cosa intendi esattamente per “missione”?
«Un dovere spirituale. Credo di essere qui per mostrare, attraverso la pittura, che le culture del mondo non sono opposte. Tutte cercano la stessa cosa: il Bello, il Vero, il Bene. La cultura vera non ha confini. L’arte è il linguaggio universale che può unire le civiltà. È questa la mia missione: unire, non dividere».

Il tuo cognome ha una storia particolare. Ce la racconti?
«Si pronuncia come altri caratteri cinesi, ma è scritto in modo diverso. È un dettaglio, ma mi rappresenta: familiare in apparenza, misterioso dentro. Come la mia vita, e come la mia arte».

Per te l’arte ha un valore spirituale?
«Totalmente. Non è solo immagine o tecnica. È un canale. Comunica tra le anime. Quando dipingo, non voglio solo rappresentare qualcosa, ma evocare una presenza invisibile. Come faceva Modigliani: i suoi occhi vuoti non sono una scelta estetica, ma un modo per mostrare lo spirito. L’arte vera non si vede, si sente».

Il pensiero taoista è centrale nella tua poetica?
«Sì. Il Tao dice: “Il Tao di cui si può parlare non è il vero Tao”. Le parole falliscono, l’arte ci si avvicina. Io cerco l’origine, il nucleo invisibile del mondo. Con forme, linee, simboli provo a suggerire ciò che non si può dire».

Il pubblico capisce subito i tuoi quadri?
«Non sempre. A volte ci vogliono mesi, anni. Ma non importa. L’opera nasce da un’esperienza vera, vissuta nel presente. Io non spiego: lascio che ognuno trovi la sua connessione con quella energia».

Hai parlato anche di Picasso…
«Sì. Picasso, Modigliani, Kandinskij: tutti cercavano la stessa cosa. Non la rappresentazione della realtà, ma lo spirito. Anch’io provo a varcare quella soglia. L’essenza prima della forma».

Quando ti sei sentito un artista “del mondo”?
«Nel 2015, dopo la mia terza esperienza di pre-morte. Lì ho capito che il mio tempo, il mio luogo, erano diventati secondari. Non ero più un artista “cinese”. Ero un artista umano. L’arte, come la luce, appartiene a tutti».

Com’è oggi la scena artistica cinese?
«Esistono due mondi: quello istituzionale e quello indipendente. Io faccio parte del secondo. Per anni è stato quasi impossibile sopravvivere fuori dal sistema. Ma oggi le cose stanno cambiando. Molti giovani artisti degli anni ’80 e ’90 stanno trovando una propria via, recuperando le radici della nostra cultura. È una nuova era. Io ho fiducia».

Anche tu sei partito da soggetti tradizionali, poi hai cambiato rotta…
«Esatto. Dipingevo scene religiose, apprezzate in Cina. Ma dopo le esperienze che ho vissuto, non potevo più fermarmi alla superficie. Dovevo andare oltre. Ora la mia arte è una ricerca dell’essenza. E sono felice di vedere che tanti artisti stanno facendo lo stesso percorso. Non è facile, ma è autentico. E questo, alla fine, è ciò che conta».