L’Agricoltura di Stato in Calabria: Il caso della SAB di Altomonte
La storia di questa azienda locale, acquisita dalla SME agli inizi degli anni Sessanta e poi venduta ai privati nel 1984, si intreccia con risvolti ben più ampi
Maggio 1977. Nelle aziende agricole è tempo di diradamento del pesco, un’operazione che richiede molta manodopera in un arco di tempo molto ristretto. L’elevato afflusso di braccianti presso l’ufficio di collocamento di Altomonte determinava lunghe code per l’espletamento delle pratiche di
assunzione. Un uomo in coda, visibilmente nervoso, protestava ripetutamente con le persone in fila. Giunto il suo turno, entrò nell’ufficio e accusò il collocatore di favoritismi, sostenendo di non essere stato assunto come dovuto. La discussione degenerò rapidamente: l’uomo afferrò il funzionario per i capelli e, con un coltello appena acquistato, gli tagliò la gola. Il colpo fu mortale. Il collocatore cadde a terra senza vita, in una pozza di sangue. L’aggressore, con apparente calma, lasciò l’ufficio chiudendo la porta alle sue spalle.
L’uomo era Varisano Carlo, di indole instabile e occupato saltuariamente presso l’azienda agricola SAB (Società Agricola Brutia), situata allo svincolo della SA-RC di Altomonte. Arrestato quando sua figlia aveva appena tre mesi, fu condannato a 18 anni di detenzione, a cui se ne aggiunsero altri due per reati commessi durante il periodo di carcere domiciliare. La SAB era una delle numerose aziende agricole del Sud Italia acquistate dalla SME (Società Meridionale Elettrica). Dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica effettuata dal Governo Fanfani IV nel 1962, la SME aveva reinvestito nell’agricoltura i fondi ricevuti dallo Stato. Con il suo arrivo in Calabria nel 1965, l’azienda attrasse molti braccianti locali, anche grazie alle tariffe orarie più alte. Per gestire l’enorme domanda, i sindacati, d’accordo con l’ufficio di collocamento, introdussero un sistema di rotazione delle assunzioni ogni 30 giorni. Questa misura, però, generava confusione tra i tecnici addetti al personale e un profondo malcontento tra i lavoratori, che sfociava spesso in discussioni violente, come nel tragico caso di Varisano Carlo.
Il disboscamento e la sistemazione idraulica dei terreni della nuova azienda parastatale — un tempo proprietà dei fratelli Pace di Altomonte, che li coltivavano in modo tradizionale — venne affidata a Ghetti, un ruspista romagnolo giunto al Sud con la nascita della cooperativa OSAS. Ghetti stabilì il suo quartier generale presso l’azienda Sirotti, usando come ufficio una vecchia carovana che rimase in loco fino al 1996, anno in cui fu rimossa dopo che l’azienda venne presa in affitto da Agostino Caligiuri. Con le prime ruspe Caterpillar D8 e D9, Ghetti sistemò i terreni secondo
i criteri in uso in Emilia-Romagna: realizzò fossi di scolo di prima e seconda raccolta e conferì ai campi una leggera baulatura. La parte pianeggiante dell’azienda (circa 230 ha) fu interamente destinata a pescheti, mentre la parte collinare fu impiantata solo successivamente con l’introduzione
dell’irrigazione a goccia ad albicoccheti, susineti e in quota minore a meleti.
I primi impianti furono realizzati nel 1966. Con lo sviluppo della peschicoltura nella Piana di Sibari, molti tecnici romagnoli si trasferirono in Calabria. Tra loro si ricordano Menegatti, Nardini, Novelli, Mazzini, Bergomi, Bordandini Adelmo e molti altri. Presso lo scalo di Spezzano Albanese (CS), la società Valsele di Battipaglia aveva aperto un magazzino di fitofarmaci, in seguito allo sviluppo della peschicoltura nella Piana di Sibari. Bordandini Anselmo, detto “Balilla”, fu uno dei primi tecnici a scendere in Calabria per seguire l’azienda Bilotti, una delle prime ad impiantare il pesco nel comune di Altomonte. Balilla diventò il referente tecnico della Valsele grazie alle sue competenze non solo nella potatura ma anche nella difesa fitosanitaria. Spesso i tecnici locali si fermavano con lui per parlare di frutticoltura, ma anche — con toni a volte accesi — di politica, dato il suo netto schieramento a sinistra, tipico della sua terra d’origine “rossa”.

La Valsele era collegata alla SME che nel Sud Italia aveva acquisito aziende in Puglia, Basilicata, Campania e Calabria, inserendosi in una serie di aziende racchiuse come scatole cinesi facenti parte del gruppo IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). L’IRI, ente pubblico economico italiano nato nel 1933 per salvare banche e grandi industrie dalla crisi, divenne il principale strumento dello Stato per controllare settori strategici, incluso l’alimentare. Fu il simbolo del capitalismo di Stato in Italia, utilizzato sia per lo sviluppo economico del Paese sia, purtroppo, come strumento di gestione politica e clientelare.
Nella SAB della SME, i primi tecnici furono i periti agrari Siboni Sergio e Ravaioli Diano, affiancati come capo potatore da Siboni Araldo, tutti originari della zona di Ravenna. Nel momento di massimo sviluppo della SAB della SME e dell’OSAS, la maggior parte dei tecnici provenienti dal Nord Italia lasciò il territorio, cedendo il testimone a tecnici locali che si erano formati al loro fianco. Tra questi ricordiamo Francesco Giordano, Franco Merli, Luigi D’Ambra, Viceconte Palmino, Domenico Gallicchio e Giuseppe Franzese, tutti provenienti dalla “scuola” di Balilla, del dott.Luciano Sirotti o del signor Nardini Agostino, recentemente scomparso.
Anche nella SAB si verificò una vera e propria rivoluzione: Siboni Sergio e Ravaioli Diano lasciarono l’azienda, che rimase priva di una guida tecnica. L’unico rimasto, Siboni Araldo, presentava molte lacune in alcuni settori, essendo semianalfabeta. Al suo fianco venne quindi chiamato un altro
ravennate, il perito agrario Pierluigi Moschini, diplomatosi nel prestigioso Istituto Agrario Scarabelli di Imola e formatosi alla scuola del celebre dottor Cellini, l’agronomo che modificò l’approccio alla potatura delle piante da frutto rispettandone la fisiologia.
Padre della potatura “a tutta cima”, Cellini rivoluzionò soprattutto la fase di allevamento delle piante da frutto, in particolare del melo, aprendo la strada all’aumento della densità di impianto. Nelle drupacee, la sua proposta del famoso “bidone” per il pesco segnò l’inizio dell’individuazione del fusetto come forma di allevamento, oggi applicata a diverse specie.
Pierluigi Moschini, proveniente da una tradizione familiare di frutticoltori, arrivò in Calabria nel gennaio 1972 grazie al dottor Ricci di Forlì, amico del dottor Cellini e capo tecnico della SME, che inizialmente si occupò di organizzare l’azienda Matina ad Altomonte. Moschini fu un tecnico eccellente che diede un contributo notevole allo sviluppo dell’azienda SAB,
sperimentando anche diverse varietà e portinnesti di pesco in ollaborazione con l’Istituto di Frutticoltura di Roma.
Nel 1977 si ritrovò solo: anche Siboni Araldo se ne andò, forse a causa dei continui litigi con il personale locale e forse spaventato dall’omicidio del collocatore da parte di un suo dipendente, Varisano Carlo. A Moschini fu affiancato Nicola Canonaco, proveniente da un’azienda del gruppo
SME in Basilicata, dedita principalmente alla produzione di cereali e ortaggi. La vendita dell’azienda in Basilicata fu il primo segnale del crescente disinteresse della SME per il settore agroalimentare. Ciò divenne evidente quando, dovendo affrontare il rinnovo dell’azienda Matina di Altomonte, i dirigenti, dopo aver inizialmente acconsentito all’allestimento di un vivaio per il reimpianto, ordinarono poi la vendita di tutti gli astoni.
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Il 1983 fu un anno di limbo, durante il quale Pierluigi Moschini pensò di lasciare la Calabria. Ma era ormai troppo tardi: aveva messo radici, essendosi sposato con una giovane ragazza di Castrovillari, da cui aveva avuto due figli. La svolta arrivò nel 1984, quando la SME decise definitivamente di vendere anche l’azienda Matina di Altomonte. L’IRI tentò di privatizzare la SME negli anni ottanta, inserendo il gruppo alimentare dentro un piano di dismissioni fatte per potersi concentrare in settori definiti più strategici rispetto al ramo alimentare, nonostante che la SME negli anni 80 fu una delle caposettore dell’IRI a riportare i migliori risultati economici.
I nuovi acquirenti furono tre soci locali: l’avvocato Tocci e i fratelli Nola, Gaetano e Giuseppe, già soci dell’OSAS. L’avvocato Tocci, che in realtà svolgeva più attività speculative (acquistando e rivendendo immobili
all’asta) che la professione forense, conobbe il ragioniere capo della SME sul litorale tirreno di Belvedere Marittimo. Lì ebbe i primi contatti per l’acquisto dell’azienda Matina. Considerata la cifra notevole, nonostante il prezzo di “favore”, Tocci coinvolse i fratelli Nola. Nacque così la SAM
(Società Agricola Matina), denominazione che richiamava la sua ubicazione in Contrada Matina di Altomonte e non si discostava troppo da quella data dalla SME.
Dopo un periodo fiorente, in cui vennero prodotte diverse varietà di percoche per la PAI (l’azienda di trasformazione affiliata all’OSAS), anche l’azienda Matina conobbe un nuovo periodo buio. Le dimissioni dell’avvocato Tocci dal gruppo OSAS portarono allo smembramento dell’azienda. Una parte, oggi denominata “La Fiorente”, fu assegnata all’avvocato Tocci. Quest’ultima è passata più volte di mano, mantenendo la sua vocazione peschicola, mentre l’azienda “Matina” è stata negli anni
riconvertita ad altre colture arboree e in parte a seminativi, per colture destinate alla zootecnia e agli impianti di biogas.
La storia di questa azienda locale, acquisita dalla SME agli inizi degli anni Sessanta e poi venduta ai privati nel 1984, si intreccia con risvolti ben più ampi. La vendita della SME, holding pubblica dell’IRI che controllava grandi industrie alimentari (tra cui Cirio, Motta, Alemagna, Surgela, Alivar ecc.), fu infatti un grande scandalo politico. Nel 1985 ci fu una seria offerta di Carlo De Benedetti (Olivetti), ma il governo la fece saltare, favorendo invece l’ingresso di Silvio Berlusconi (Fininvest) e di altri gruppi vicini al potere politico.
La vicenda mostrò chiaramente gli intrecci fra affari e politica (una Tangentopoli ante litteram) e rivelò come l’IRI fosse spesso usato come strumento politico più che economico. Ciò che resta a noi di questa storia è soprattutto la vicenda umana di coloro che fecero una sorta di emigrazione al contrario: persone che hanno dato molto alla frutticoltura meridionale e che, allo stesso tempo, hanno ricevuto molto dalla Calabria.
Nell’ultimo incontro con Pierluigi Moschini, ormai in pensione da anni, ho letto nei suoi occhi la soddisfazione per ciò che ha costruito nella sua vita professionale all’azienda Matina e sul suo volto la serenità di uno dei pochi tecnici romagnoli che ha scelto di restare in Calabria. Perché, in fondo, in
Calabria non si sta affatto male: la bellezza del territorio, il clima favorevole e la presenza di persone riconoscenti verso uomini come lui, che hanno dato tanto a questa Terra.
*Testo scritto con il contributo di Pierluigi Moschini