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02/06/2025 ore 15.14
Economia e lavoro

Mestieri in estinzione e una scuola che non forma più, così l’Italia rischia di perdere il suo patrimonio di competenze

Fabbri, elettricisti, cuochi, artigiani: migliaia di figure professionali spariscono, mentre il sistema scolastico ignora i saperi tecnici. Tra disoccupazione giovanile e posti vacanti nelle imprese, serve una svolta per invertire la rotta

di Luca Falbo e Bruno Mirante

«La crisi del lavoro non è solo numerica: è soprattutto una crisi culturale. Abbiamo smesso di valorizzare il lavoro manuale, tecnico, concreto. Ma senza questi saperi non si costruisce nessun futuro». (Intervista a Marco Bentivogli, esperto di politiche industriali)

La scomparsa dei mestieri tradizionali

Fabbri, falegnami, sarti, elettricisti, idraulici, panettieri, cuochi, artigiani, tornitori: l’Italia sta lentamente perdendo il suo patrimonio di competenze manuali e tecniche. Secondo un’indagine Unioncamere 2024, entro il 2028 oltre 600.000 figure professionali artigiane andranno in pensione, ma solo una minima parte sarà sostituita da nuovi ingressi.

Molte di queste professioni non sono sostituibili con automazione, né delocalizzabili. Eppure, le iscrizioni agli istituti professionali e tecnici continuano a diminuire. Negli ultimi 10 anni, il numero di studenti negli istituti professionali è calato del 18%.

Esempio emblematico: in Lombardia, nel settore della meccanica di precisione, mancano ogni anno oltre 12.000 periti specializzati. Le aziende sono costrette a rinunciare a commesse o a ricorrere a lavoratori stranieri formati all’estero.

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Una scuola che non forma (più)

Il sistema educativo italiano, a partire dalla scuola secondaria, appare ancora fortemente sbilanciato verso una formazione teorica e generalista.

L’orientamento scolastico è spesso assente o inefficace: secondo il Censis, oltre il 60% degli studenti di terza media non riceve un vero supporto all’orientamento. Il risultato è una canalizzazione forzata verso i licei (oltre il 56% delle scelte), anche per studenti poco motivati o più adatti a percorsi pratici.

Nei paesi del centro Europa – come la Germania, l’Austria e la Svizzera – il sistema duale (scuola + impresa) garantisce una transizione solida dalla formazione al lavoro, con tassi di occupazione giovanile molto più alti (Germania: 6,6%, Italia: 20,1%).

In Italia esistono esperienze virtuose, come gli ITS Academy (Istituti Tecnici Superiori), che offrono formazione post-diploma altamente professionalizzante. Gli ITS vantano un tasso di occupazione a un anno dalla fine del corso pari all’81%, ma coinvolgono appena 20.000 studenti l’anno, contro i 750.000 delle università.

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La crisi della formazione continua

Il problema non riguarda solo i giovani: anche i lavoratori adulti hanno sempre meno occasioni per aggiornare le proprie competenze. Secondo Eurostat (2024), solo il 7,2% degli adulti italiani partecipa a percorsi di formazione continua, contro una media europea del 12% e punte del 20% nei Paesi scandinavi.

In un mondo del lavoro in continua trasformazione, la mancata riqualificazione professionale rischia di generare milioni di lavoratori “obsoleti”, destinati a essere espulsi dai settori più dinamici.

Il disallineamento strutturale

Il problema è sistemico. Da un lato, le imprese non trovano personale formato. Dall’altro, i giovani si trovano con titoli inutilizzabili nel mercato. È il cosiddetto disallineamento tra domanda e offerta di lavoro.

Ecco alcuni esempi significativi (fonte: Unioncamere-Anpal 2024):

Questo mismatch costa ogni anno oltre 20 miliardi di euro in mancata produzione, ritardi e occasioni perdute.

Proposte per invertire la rotta