Mille borghi senza futuro: il Sud dimenticato e la strategia che nessuno vuole ammettere
In Calabria sono centinaia i comuni rischiano di scomparire nei prossimi anni, vittime di uno spopolamento che il nuovo Piano strategico nazionale definisce “irreversibile”. Ma non è destino, è il risultato di anni di abbandono istituzionale
C’è un’Italia che non finisce nei telegiornali, un’Italia che lentamente si spegne e lo fa nel silenzio. Non è solo un dato demografico, ma una diagnosi ufficiale: il nuovo Piano strategico nazionale per le aree interne parla apertamente di “spopolamento irreversibile”. Parole pesanti come un verdetto. Nei prossimi cinque anni più di mille borghi sono destinati a svuotarsi, molti dei quali nel Mezzogiorno e in particolare in Calabria. Non parliamo di luoghi astratti, ma di comunità vive, storie, tradizioni, economie locali che rischiano di diventare solo memoria.
Spopolamento, un'emorragia senza fine in Calabria: a rischio 306 comuni. E nei prossimi 25 anni si perderanno altri 300mila abitantiNon un incidente, ma una scelta
Ciò che colpisce non è solo la dimensione del fenomeno, ma il modo in cui viene raccontato: come se fosse un destino inevitabile. In realtà, come osservano gli esperti di politiche territoriali, non si tratta di una catastrofe naturale, ma dell’esito di decenni di scelte politiche sbagliate o mancate.
Tagli a scuole, ospedali, servizi di trasporto e connessioni digitali hanno reso la vita nei paesi sempre più complicata. Chi resta spesso è anziano, chi parte non torna più. E così, mentre ci si concentra sulle metropoli, l’entroterra – che copre circa il 60% del territorio nazionale – viene lentamente considerato un costo inutile, una zavorra da accompagnare alla fine.
Come abbiamo scritto anche nell’articolo “Eutanasia di Stato per mille borghi: il Governo condanna a morte il Sud e la Calabria” l’antropologo Vito Teti lo descrive come una ferita che tocca la memoria collettiva: nei borghi non muoiono solo le case, ma i legami sociali, i mestieri antichi, la capacità di presidiare e proteggere il territorio.
Lo spopolamento ha effetti a catena: boschi non più curati diventano preda degli incendi, campi abbandonati smettono di produrre, scuole chiuse cancellano opportunità e creano nuove disuguaglianze. Ogni borgo che scompare è un pezzo di biodiversità culturale che perdiamo per sempre.
Non è un fenomeno isolato del Sud: anche alcune zone del Centro Italia colpite dai terremoti, nonostante le risorse del Pnrr e dei fondi di coesione, stanno vivendo la stessa parabola. La strategia nazionale per le aree interne, nata per invertire la tendenza, ha spesso fallito per ritardi, burocrazia e progetti mai decollati.
La vera novità, sottolineata da studiosi e associazioni come Uncem, è che lo spopolamento non è irreversibile. Ma servono interventi radicali: non solo incentivi economici, ma politiche di accoglienza mirata, come l’arrivo di nuove famiglie dall’estero in borghi oggi deserti, sostenute da programmi di integrazione e lavoro locale. Esperimenti di questo tipo esistono già, dal Piemonte alla Sicilia, e dimostrano che riportare vita è possibile se c’è una regia chiara e coraggiosa.
Petilia Policastro, il sindaco Saporito e la lotta contro lo spopolamento: «Serve l’aiuto di tutte le istituzioni»Altra chiave di lettura spesso trascurata è quella digitale: investire nella connessione veloce e nel lavoro da remoto potrebbe rendere questi paesi di nuovo appetibili a giovani professionisti che cercano qualità della vita. In un’epoca in cui anche le metropoli stanno perdendo abitanti verso l’estero, l’Italia potrebbe giocare una carta diversa: trasformare i borghi in luoghi di innovazione e sostenibilità.
Una responsabilità collettiva
Accadrà quello che noi immaginiamo se accada a meno che non faremo atrimenti.
Se continueremo a considerare inevitabile la fine dei piccoli centri, l’Italia che resterà sarà un Paese a metà, fatto di poche metropoli e di un enorme vuoto. Ma un Paese senza radici non costruisce futuro. Le Regioni non possono più restare in silenzio, e il Governo non può limitarsi ad accompagnare questi luoghi alla morte. Occorrono piani concreti, coraggio politico e la capacità di immaginare un’Italia diversa, dove la storia e la modernità si incontrano, e dove vivere in un borgo non significa essere condannati all’abbandono.
L’eutanasia di Stato dei nostri borghi non è ancora scritta. Ma per cambiarne il destino serve che tutti, cittadini, istituzioni e imprese, scelgano di non voltarsi più dall’altra parte.