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15/08/2025 ore 10.58
Economia e lavoro

Noi che ogni Ferragosto facevamo le scampagnate in montagna e una riflessione sulla cosiddetta crisi dei giorni nostri

Non si spendeva nulla, si viveva con poco, le parole d’ordine erano lavoro, impegno, sacrifici. Oggi domina solo la società dei consumi

di Massimo Tigani Sava
Scampagnata di ferragosto (Foto Ansa)

Ma la cosiddetta crisi economico-sociale che stiamo vivendo che caratteristiche ha? Forse sarebbe meglio chiamarla “crisi di cambiamento”, carica di contraddizioni enormi, e rispetto alla quale proprio il Ferragosto può aiutarci a capire meglio e ad interpretare quanto sta avvenendo. Appartengo come tanti alle generazioni di quella piccola e media borghesia del “boom” degli Anni Sessanta che, nonostante avesse acquisito la sicurezza dei posti di lavoro fissi, viveva la propria quotidianità con gli occhi rivolti ai decenni precedenti.

L’interclassismo era la regola: l’intellettuale frequentava l’operaio e l’artigiano, e solo la porzione più alta della società viveva in un mondo a sé. Non conoscevamo le settimane bianche, le crociere, l’uso assiduo di villaggi, alberghi e ristoranti, e men che meno la frequentazione costante di pizzerie, fast food, rosticcerie. Né prenotavamo costosi ombrelloni e sdraio negli stabilimenti balneari alla moda. L’ombrellone con il palo di legno te lo portavi da casa, te lo piantavi a forza di braccia, e in un comodo borsone ci finivano anche l’acqua fresca aromatizzata al succo di limone e i panini caserecci.

D’estate, come il resto dell’anno, si spendeva poco o nulla, anche perché prevaleva la cultura del risparmio per pagare il mutuo della casa, la rata dei mobili o degli elettrodomestici, o per impinguare il libretto postale. Il Ferragosto era l’emblema di questo modo di vivere più sano e autentico. Già dal giorno prima le mamme, le zie e le nonne (monumento della famiglia tradizionale) lavoravano sodo in cucina per predisporre teglie di pasta al forno, di melenzane ripiene, di sublime “frittata di pasta”.

L’anguria era compagna immancabile, assieme a vino paesano e qualche birra a buon prezzo. L’acqua la si poteva bere dalle sorgenti ancora pure, perché le mete preferite erano gli immensi prati alberati della Sila, delle Serre, dell’Aspromonte. Si partiva in comitiva la mattina presto, si sceglieva un’area libera, si stendevano i plaid per terra, si scaricavano tavolinetti, sedie e vettovaglie. Non ci consentivamo neanche il pallone di cuoio, privilegio di pochi, ma i mitici “supertela” o “superSantos”. Qualcuno azzardava l’accensione di un fuoco di legna per arrostire salsicce o braciole di carne. Comitive miste tra parenti e amici: si parlava, si richiamavano storie comuni, si sfotticchiava qualcuno, si mangiava fino a sentirsi male.

Al tramonto si rimetteva tutto in auto, non prima di essersi fermati in qualche bar per un gelato (di quelli confezionati, anche perché la moda degli artigianali è molto più recente). Che cosa spendevamo? Quasi nulla, se non il mezzo pieno di benzina per automobili popolari come la Fiat 127 o 128, il Maggiolino, le Renault 4, qualche Alfa Romeo. In quell’Italia, che certo aveva pure i suoi limiti, si poteva tirare avanti senza troppi traumi. Anche alle Medie, però, studiavamo il latino e i professori li rispettavamo. Il maresciallo, il prete, il capostazione, il postino, il medico di famiglia (che veniva a casa quando eri ammalato) erano dei punti di riferimento importanti.

Ritorniamo all’oggi, alla cultura di massa che ha trasformato tante occasioni di consumo in esigenze irrinunciabili anche per chi non se lo può consentire. Eccola una prima riflessione su questa “crisi”. In tanti, in troppi, assediati dalla civiltà mostruosa del consumo, immaginano di poter vivere molto al di sopra delle proprie possibilità; dalla colazione al bar che ti costa il quadruplo, agli ombrelloni e lettini di stabilimenti che hanno alzato i prezzi, allo spuntino in spiaggia o all’aperitivo che valgono quanto la paga di una giornata di lavoro, alla cena fuori casa non intesa come lusso di un’agognata sera di festa, ma come abitudine consolidata.

E poi quattro telefonini a famiglia, due auto e motorini, scooteroni che valgono più di metà di un normale stipendio annuale, l’ambizione da parte di tutti di andare in crociera, o nel villaggio carico di attrazioni, all’estero senza aver visitato neanche il Pollino o la Locride, o magari Paestum e Pompei. Conosco gente che è andata alle Maldive ma non ha passeggiato mai per le vie di Napoli, di Palermo, di Matera, di Bari, di Lucca o della meravigliosa Trieste. Tartassati dalla potentissima macchina del consumo le famiglie sono stordite, disorientate, indebitate, con la pace di chi ovviamente se lo può permettere appartenendo alla classe degli agiati. Ma i ricchi sono pochi e magari risparmiano più dei poveri. Se poi ci aggiungi un divorzio, gli alimenti per i figli della prima moglie, la nuova compagna da assecondare, qualche vizietto un tempo inesistente (mi limito a quelli leciti) la torta della “crisi” è servita. E non voglio parlare dei compleanni per i diciotto anni intesi come matrimoni.

Né, in questo Ferragosto, ha senso aprire la partita del lavoro che manca. Di lavoro e lavori ce n’è tantissimi, mancano però i posti fissi e comodi di un tempo, aggiungendo i posti dispensati con le clientele, i posti che per decenni hanno consentito a molti una seconda lucrosa attività. E questa dimensione ha intorbidito anche le acque della politica, perché troppi prima di dedicarsi a imparare qualcosa, prima di impegnarsi per specializzarsi in un comparto qualsiasi, pensano di utilizzare lo scambio di voto per sistemarsi da qualche parte. Per carità, si colga il senso più ampio di questo ragionamento. La vera disperazione di ceti disagiati è sempre dietro l’angolo, ma se ci si pensa bene questo fenomeno è sempre esistito, dai tempi degli antichi Romani.

La verità è che oggi la cosiddetta crisi investe anche i ceti medi che un tempo risparmiavano piuttosto che firmare prestiti elargiti dalle finanziarie. Ritorno al concetto di crisi di cambiamento. Occorrerebbe sedersi con serenità e capire che società si intende costruire. Ai figli, anziché viziarli, anche quando non si può, chiedere diligenza e costanza nell’imparare bene un mestiere o nel diventare professionisti preparati e distintivi, e quindi non solo sulla carta. Ce lo insegnano la Cina, l’India e altri Paesi che da qui a breve diventeranno leader assoluti: lì i giovani apprendono da subito a competere e vengono ancora allevati per il sacrificio. Noi, figli della Magna Grecia e della Gloria di Roma, eravamo abituati al lavoro duro, alla morigeratezza, allo studio, all’applicazione, alla bottega artigiana che ti formava sin da adolescente, alla civiltà contadina.

Oggi, purtroppo, prevale quasi solo la logica del consumo e del “vorrei”. Tant’è che l’Europa tutta sta affondando. Forse è troppo tardi per pensare a possibili rimedi. Andando avanti così è certo che si viaggerà rapidi verso la costruzione di due classi distinte e lontane: i ricchi e potenti, che tutto si possono permettere, e la massa di coloro i quali sopravvivono fra disperazione e stress, fra frustrazione e vite senza senso, senza obiettivi, senza certezze. Un’ultima considerazione: se ogni tanto la consueta classifica del benessere la si misurasse con la densità degli scooteroni credo che la Calabria si attesterebbe ai primi posti. Buon Ferragosto a tutti!