Un rito che si spegne, i calabresi lontani che non tornano più: «Il cuore è sempre qui ma la vita è altrove»
Costi, distanza e nuove identità spezzano un’antica consuetudine. La diaspora si allontana mentre restano ricordi e il sogno di un “turismo delle radici” che ricuce legami
La Calabria, terra di ulivi, mare cristallino e tradizioni millenarie, non è più la meta estiva di tanti suoi figli sparsi per il mondo. Un tempo, il ritorno degli emigrati in estate o durante le feste era un rito sacro: paesi che si rianimavano, piazze piene di voci, famiglie riunite attorno a tavole imbandite. Oggi, però, questo flusso si è affievolito. Perché gli emigrati calabresi, e del Sud Italia in generale, non tornano più? La risposta sta in una serie di fattori sociali, economici e culturali, che raccontano una storia di distacco ma anche di nuove identità.
Un legame che si spezza
“La Calabria è nel cuore, ma la vita ormai è altrove”, racconta Francesca, 35 anni, calabrese di seconda generazione cresciuta a Milano. La sua storia riflette quella di molti: gli emigrati, specialmente i più giovani, si sono integrati nei luoghi in cui vivono. Le seconde e terze generazioni, come spiega l’antropologo Cesare Pitto nel suo “Oltre l’emigrazione”, spesso vedono la Calabria come un ricordo lontano, un’eco di racconti familiari più che una destinazione reale. La studiosa italo-americana Donna Gabaccia parla di una “diaspora senza fine”: una volta costruita una vita altrove, con lavoro, amici e famiglie nuove, il legame con la terra d’origine si affievolisce.
Non è solo una questione emotiva. Tornare in Calabria è spesso un’impresa. I voli per Lamezia Terme o Reggio Calabria sono costosi e poco frequenti, le ferrovie sono lente, le strade interne un’odissea. “Per una settimana di vacanza spendo quanto un viaggio ai Caraibi”, confessa Antonio, emigrato in Germania. Questi ostacoli logistici, uniti al costo della vita, scoraggiano i ritorni, soprattutto per chi vive lontano.
Una terra che cambia, una memoria che sfuma
La Calabria non è più quella di una volta, e non solo nei ricordi agrodolci degli emigrati. La percezione di un Sud in declino, segnato da disoccupazione e infrastrutture carenti, pesa. Brunello Mantelli, storico che ha insegnato all'Università della Calabria, ricorda come l’emigrazione sia stata una risposta alla marginalizzazione economica del Mezzogiorno, una ferita mai del tutto rimarginata. “Tornare in un posto che sembra fermo nel tempo, senza opportunità, non è facile”, dice Mantelli. Questa immagine di una Calabria “ferma” contrasta con il dinamismo delle città in cui molti emigrati vivono, da Torino a Toronto.
Anche le tradizioni, un tempo magnete per i ritorni, stanno cambiando. Le feste patronali o i pellegrinaggi religiosi, come quelli della Madonna di Polsi, attirano ancora, ma meno. Anche Mario Bolognari, esperto di migrazioni arbëreshë, parla di un “ritorno simbolico” che sostituisce quello fisico: i giovani preferiscono viaggi esotici o mete turistiche alla visita al paese d’origine. “Le nuove generazioni non sentono più il bisogno di quel rito”, spiega Bolognari. E senza nonni o genitori da visitare, con le case di famiglia spesso vendute o in rovina, il ritorno perde senso.
La ferita psicologica e l’eredità della pandemia
C’è anche un aspetto psicologico. Tornare in Calabria può essere un’esperienza dolceamara. “Tornare significa confrontarsi con ciò che hai lasciato, con un passato che a volte fa male”, racconta Giuseppe, 40 anni, emigrato a Torino. Per molti, il Sud è sinonimo di difficoltà superate, di una vita “da cui scappare”.
La pandemia di Covid-19 ha dato il colpo di grazia a molti ritorni. Le restrizioni, i timori sanitari e le nuove abitudini di lavoro, come lo smart working, hanno spinto gli emigrati a ripensare le priorità di viaggio. Anche ora, con la pandemia alle spalle, le incertezze economiche e i costi crescenti tengono molti lontani.
Un futuro di radici e riscoperte?
Eppure, non tutto è perduto. Il “turismo delle radici”, come suggerisce lo studioso Rossi, potrebbe essere una chiave per ricucire il legame. Iniziative che invitano i discendenti degli emigrati a riscoprire la Calabria attraverso esperienze culturali – dai paesi arbëreshë alle coste ioniche – stanno prendendo piede. “Non si tratta solo di tornare, ma di capire chi siamo”, dice Rossi. Progetti come questi, insieme a investimenti in infrastrutture e promozione turistica, potrebbero trasformare la Calabria in una meta non solo nostalgica, ma viva.
Vittorio Cappelli, del Centro di Ricerca sulle Migrazioni, lancia una sfida: “La Calabria deve smettere di essere solo la terra da cui si parte. Deve diventare un posto in cui si vuole tornare”. Per farlo, serve superare l’immagine di un Sud immobile, valorizzando il suo patrimonio unico: dalla cucina alla storia, dalla natura alla cultura.
Una Calabria nel cuore, ma sempre più lontana
Il non ritorno degli emigrati non è solo una perdita per la Calabria, ma una riflessione su come la globalizzazione e la modernità rimodellano le identità. Come scrive Pitto, “il non ritorno è una condizione antropologica, non solo una scelta”. La Calabria resta nel cuore di molti, ma per tanti è diventata un ricordo, una cartolina sbiadita. La sfida, ora, è trasformare quel ricordo in un futuro, rendendo la regione non solo un luogo di nostalgia, ma una destinazione di vita.
*Documentarista