Addio a Robert Redford, gigante di Hollywood e icona senza tempo: dal mito del cinema al Sundance, aveva 89 anni
Se n’è andato uno dei volti più riconoscibili della storia del cinema americano. Attore, regista, produttore e fondatore del Sundance, ha attraversato sessant’anni di cinema con eleganza e carisma
È morto a 89 anni, come ha confermato il New York Times, lasciando un vuoto che non riguarda solo Hollywood ma tutto quel cinema che con lui aveva trovato un equilibrio raro tra intrattenimento e riflessione.
Biondo, magnetico, con quello sguardo che mescolava ironia e malinconia, Robert Redford ha costruito un repertorio che sembra un’antologia della settima arte del Novecento. «A piedi nudi nel parco» (1967) lo impose come volto romantico accanto a Jane Fonda. Con «Butch Cassidy» e «La stangata» formò insieme a Paul Newman una delle coppie più amate della storia del cinema. Poi la consacrazione politica e civile di «Tutti gli uomini del presidente» (1976), film-manifesto sul giornalismo e il Watergate, che resta una pietra miliare per intere generazioni di cronisti.
Ma Redford non era solo interprete: era un intellettuale del cinema. Nel 1980 esordì alla regia con «Gente comune» (Ordinary People), un dramma familiare che conquistò l’Oscar come miglior film e miglior regia. Hollywood scoprì che dietro l’attore di bellezza disarmante c’era anche un autore rigoroso, capace di raccontare il dolore e la fragilità con delicatezza.
Negli anni Ottanta arrivarono ruoli iconici come «I tre giorni del Condor», thriller sulla paranoia della Guerra Fredda, e «La mia Africa», con Meryl Streep, che lo trasformò nell’incarnazione del romanticismo sul grande schermo. Ma la sua carriera non fu mai solo un elenco di successi al botteghino: fu un percorso coerente, spesso controcorrente, che lo portò a sostenere il cinema indipendente quando nessuno ci credeva davvero.
Il Sundance Film Festival, fondato da lui nel 1985, resta una delle sue eredità più importanti. Un laboratorio che ha fatto emergere registi come Quentin Tarantino, Steven Soderbergh e Paul Thomas Anderson. Redford aveva capito prima di altri che il futuro del cinema passava anche dal basso, da quelle storie laterali e radicali che Hollywood tendeva a soffocare.
La sua longevità artistica si è accompagnata a quella personale. Redford amava dire che la sua ricetta era «semplice»: disciplina, vita all’aria aperta, cura del corpo e della mente. Ma aggiungeva sempre, con un sorriso ironico, che l’amore e il sesso erano parte integrante di quella filosofia. Un modo per ricordare che il suo fascino non era solo estetico, ma parte di un progetto di vita libero e vitale.
Negli ultimi anni aveva scelto un profilo più basso, ma non si era mai del tutto ritirato. «Old Man & the Gun» del 2018, dove interpretava un rapinatore gentiluomo, fu salutato come il suo film-testamento: un congedo elegante, quasi una dichiarazione d’intenti. «Ho sempre voluto raccontare uomini comuni che inseguono sogni straordinari», disse allora.
Robert Redford lascia quattro figli, sette nipoti, una carriera di oltre sessant’anni e un’eredità che va ben oltre le pellicole. Ha incarnato la possibilità che il cinema fosse al tempo stesso industria e arte, glamour e coscienza civile. Un uomo che ha vissuto più vite, restando sempre fedele a se stesso: ribelle, sognatore, regista della propria leggenda.