Amanda Knox su Disney+: tra corvi e superstizioni, così la miniserie stravolge il caso Meredith Kercher
La serie tv in otto episodi dal 20 agosto sul servizio streaming del colosso statunitense e Hulu, rilegge il delitto di Perugia con toni grotteschi e distorti. E dipinge l’Italia come un mondo di estremisti religiosi e strane credenze popolari
Si può guardare in molti modi The Twisted Tale of Amanda Knox, la nuova miniserie in otto puntate in arrivo su Disney+ il 20 agosto (e in contemporanea su Hulu negli Stati Uniti). Si può prenderla come un dramma giudiziario, come un thriller dal respiro internazionale, oppure come il tentativo di Amanda Knox di riscrivere, a suo modo, la storia che l’ha vista protagonista: l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia nel 2007 e il lunghissimo processo che ne seguì.
Ma quello che arriva sullo schermo è un racconto che mescola stereotipi, forzature e caricature, più vicino a un feuilleton che a una ricostruzione rigorosa. La serie è prodotta dalla stessa Knox, dal marito Christopher Robinson e da Monica Lewinsky, già simbolo di una storia di scandalo e gogna mediatica. Alla sceneggiatura c’è K.J. Steinberg, autrice di This Is Us.
Le premesse lasciavano immaginare un lavoro che unisse introspezione, riflessione culturale e critica dei media. Il risultato, però, è una narrazione che indulge in esagerazioni e simbolismi ingenui: corvi che sbattono sulle finestre della Procura come presagi di sventura, libri che prendono fuoco da soli, maschere veneziane che compaiono inspiegabilmente a Perugia. E soprattutto un’Italia descritta come un Paese arretrato, bigotto, in cui religione e superstizione governano ogni gesto.
Il procuratore Giuliano Mignini viene dipinto come una sorta di inquisitore visionario, preda di deliri mistici. Parla con Gesù, invoca i santi, sostiene di essere stato scelto per “liberare Perugia dal crimine e dalla droga”. Un ritratto che scivola nel grottesco e che riduce a caricatura un magistrato reale, al centro di un processo già di per sé controverso. È una torsione drammatica che semplifica e spettacolarizza, anziché chiarire.
La miniserie, nelle intenzioni dichiarate, avrebbe dovuto raccontare l’impossibile convergenza tra verità giudiziaria e verità assoluta, la distanza fra realtà e percezione. Ma finisce per costruire un’opera che oscilla fra il manuale sociologico e la soap opera. Da un lato, infatti, insiste sul ruolo distorto dei media, sulle manipolazioni giornalistiche, sull’opinione pubblica assetata di sangue e di emozioni. Dall’altro, però, cede alle stesse dinamiche che critica, utilizzando simboli facili e una messa in scena ridondante.
Amanda Knox, interpretata da Grace Van Patten, viene presentata come la perfetta colpevole creata dai pregiudizi: giovane, bionda, disinvolta, “fucking weirdo” – come lei stessa si definiva su MySpace. Una ragazza che faceva yoga in Procura, che aveva un vibratore a forma di coniglio e che fumava spinelli. Tutti elementi privati che diventarono marchi d’infamia durante il processo e che la serie rilancia come chiave di lettura del pregiudizio etico ed etnico.
La stampa, nel racconto della serie, è il vero carnefice. Etichettò Amanda come “Foxy Knoxy”, “faccia d’angelo” e allo stesso tempo “luciferina”. Un angelo travestito da pervertita. I giornali britannici non perdonarono l’americana che divideva l’appartamento con la coinquilina inglese. In Italia e negli Usa, i media si accanirono con la stessa violenza: interviste imboscata, insinuazioni sessuali, titoli al veleno.
Un circolo vizioso tra pubblico, cronisti e magistratura che trasformò l’inchiesta in spettacolo permanente. Ma le forzature non riguardano solo i personaggi. Il processo stesso viene ridotto a melodramma: un’orgia come movente, Amanda che tiene ferma Meredith, Raffaele Sollecito burattino senza volontà. Tutte ipotesi che la giustizia italiana ha finito per smontare con l’assoluzione definitiva della Cassazione.
Eppure la serie le rilancia come elementi drammatici, più che come fallimenti investigativi. C’è anche una parte quasi meta-narrativa, con Knox che cerca non solo la propria assoluzione giudiziaria (già ottenuta), ma una sorta di riconoscimento morale, un’ammissione da parte del procuratore di aver sbagliato. Una giustizia riparativa che appare più come una rivendicazione personale che come riflessione universale.
Il problema, alla fine, è che The Twisted Tale of Amanda Knox inciampa nelle stesse trappole che avrebbe dovuto denunciare. Pretende di criticare la manipolazione mediatica, ma si affida a simbolismi grossolani. Vuole denunciare il moralismo, ma finisce per esagerare i cliché. Si presenta come un’analisi sul rapporto tra verità e giustizia, ma si perde in un racconto che alterna suggestioni gotiche e stereotipi da cartolina.
Resta l’impressione di un’occasione sprecata: invece di fare luce sul caso Kercher, la serie ne amplifica i fantasmi, moltiplica i pregiudizi e riduce la complessità a un intrattenimento ad alta tensione. Un’opera che si può vedere come esercizio stilistico, ma che fatica a convincere chi ricorda davvero la tragedia di Perugia e le sue ferite aperte.