Anna Magnani, il ritratto di una donna che conquistò il cinema con la sua forza e autenticità
Dietro le rughe, la voce roca e gli occhi che bruciavano lo schermo, c’era una femmina irripetibile: fragile e feroce, ironica e autentica. Né Rossellini, né Serato, né Brando riuscirono a domarla
Anna Magnani non ha mai avuto bisogno di difese. Era lei stessa la propria corazza. Un’attrice nata prima ancora che qualcuno le insegnasse a recitare, una donna che portava addosso la vita come un abito spiegazzato, ma vero. E che non chiese mai permesso a nessuno: né per amare, né per lavorare, né per sbattere in faccia al mondo le proprie fragilità come trofei di guerra.
Di lei si raccontano molti amori, quasi sempre più rumorosi dei suoi film. Ma in realtà fu una donna sola e intera, che si gettava a capofitto nella passione come in scena: senza calcoli, senza protezioni. Amò il regista Goffredo Alessandrini, il primo, quello che l’aveva scoperta e poi ferita. Con lui provò perfino la follia del perdono, fino a immaginare di condividere l’amante che le aveva rubato il cuore, Regina Bianchi. Ma era un gioco di illusioni: lui non la meritava. Quando la lasciò, Anna capì che l’amore non la avrebbe mai messa in ginocchio.
Poi vennero Massimo Serato, Roberto Rossellini, Marlon Brando, Anthony Franciosa, Gabriele Tinti. Tutti uomini che cercarono la donna e finirono travolti dal mito. Con Serato ebbe il figlio Luca, cresciuto da sola, quando lui fuggì alla prima difficoltà. Anna non pianse: continuò a lavorare, a recitare, a guadagnare, a essere madre e padre insieme. Il dolore lo trasformò in energia, in una fame di vita che nessuno avrebbe più spento.
Rossellini le diede l’amore più famoso e il tradimento più chiacchierato. Quando la lasciò per Ingrid Bergman, lei reagì come sapeva: con rabbia, con un piatto lanciato, ma anche con un sorriso amaro. «Era un uomo piccolo dentro», disse una volta, «ma mi ha insegnato a non credere più ai registi che parlano d’amore». Dopo di lui non chiese più promesse. Solo uomini veri, o niente.
Sul set, invece, Anna comandava. Rifiutò il compromesso, le scorciatoie, le seduzioni dei produttori. Nessun divano, nessun padrone. Se voleva un ruolo, lo conquistava con la forza del talento. Nessuno le regalò nulla: tutto fu frutto di coraggio e fatica. E quando Hollywood la incoronò con l’Oscar per La rosa tatuata, lei restò a casa, sola, davanti alla radio. Come se la gloria fosse un dettaglio.
Fu questa la grandezza di Anna Magnani: non recitava la vita, la viveva. Ogni smorfia, ogni ruga, ogni scatto d’ira era un pezzo d’esistenza. E dietro la corazza restava la bambina cresciuta senza padre, la ragazza del Conservatorio che aveva studiato canto e amava la poesia. Una donna colta, ironica, che parlava un italiano perfetto quando smetteva di recitare.
Odiava essere chiamata “Nannarella”: lo considerava un diminutivo offensivo. Preferiva essere ricordata per la forza, non per la tenerezza. “Non sono tenera”, diceva, “sono vera”. E nella sua verità non c’era spazio per la pietà.
Quando interpretò L’automobile, ormai oltre i sessant’anni, si mise in minigonna, senza trucco e senza paura. Mostrò la carne, la voce, la vita. Nessun lifting, nessuna finzione. Era ancora lei: una puttana dichiarata e orgogliosa, come la chiamava Giannetti, ma soprattutto una donna libera, capace di scandalizzare anche da anziana.
Sul letto di morte, raccontano, chiese a Indro Montanelli: «Perché non mi hai voluto?». E lui rispose con un sorriso: «Perché ci saremmo ammazzati». Forse aveva ragione. Perché con la Magnani l’amore non si viveva, si combatteva.
Oggi, in un tempo di attrici levigate e biografie pettinate, la sua figura resta una fenditura di verità. Non un’icona femminista, ma una donna che visse prima di ogni ideologia, difendendo la propria libertà con la voce, con il corpo e con l’ironia.
Anna Magnani non chiedeva giustizia, se la prendeva. E il mondo, da allora, non ha più conosciuto un’urgenza così vera.