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16/11/2025 ore 09.05
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Ballando con le stelle, con Andrea Delogu in scena il dolore che incanta e distrugge

Il ritorno della conduttrice, segnato dal lutto per la morte del fratello Evan, si è trasformato in una danza intima e dolorosa sulle note di Spaccacuore. Un’esibizione intensa in cui il dolore si è fatto resistenza, lasciando sul palco un silenzio densissimo

di Ernesto Mastroianni

Accade, a volte, che lo spettacolo televisivo abdichi alla sua natura effimera e si trasfiguri, attraverso un’interruzione brusca del flusso consueto. È accaduto quando, nella puntata del sabato sera di Ballando con le stelle, Andrea Delogu, attraversata dal lutto più radicale – la morte del fratello Evan, falciato nel pieno dei suoi diciotto anni – ha rimesso piede sulla pista della trasmissione di Rai1. Non si è trattato di un semplice rientro, piuttosto di un riaffiorare dalla penombra, un riemergere lento e quasi doloroso, come chi torna in un luogo che non riconosce più, perché la realtà interiore è stata irrimediabilmente scardinata.

L’assenza di Evan, per la Delogu, non è una mancanza: è una fenditura. Una crepa che non cicatrizza e attraverso cui continua a passare un vento gelido, un mormorio di ciò che non è più, e che nonostante tutto continua a esistere. Questo è ciò che si evince dall'interpretazione fatta durante il suo balletto. È dentro quella fenditura atroce che Andrea ha collocato la sua esibizione, costruendola come una sorta di liturgia privata resa pubblica, una confessione non detta ma incarnata, un atto di sopravvivenza.

Il balletto è stato scritto sulle note della canzone "Spaccacuore" di Samuele Bersani, con la sua metafora feroce del cuore trasformato in un’arma rivolta contro chi lo porta. Questo è già in sé un prisma di dolore, un distillato di incoerenza emotiva e di silenzi che corrodono.

Nella danza di Andrea Delogu quell’immagine si è fatta corpo: il battito come detonatore, il passo come esitazione, lo sguardo come tregua mancata. L’amore, che nella canzone si disfa a causa dell’incapacità di nominare l’indicibile, trova una corrispondenza quasi naturale nel suo movimento franto, nel tremito impercettibile delle mani, nella postura che alternava slancio e cedimento, una grammatica intima del dolore.
 

Raramente la televisione permette di scorgere, sotto la patina lucente, una riflessione così cupa e insieme così necessaria sulla fine. La fine come entità spietata, come forza che disordina, come mano invisibile che recide ciò che per noi era sostanza. Ma anche come origine paradossale, perché solo ciò che finisce ci costringe a ricomporre, a ricollocarci nel mondo, a riformulare il senso del nostro stesso respiro.

Andrea sembrava aderire completamente a questa duplice natura della fine: l’ha accolta come un monolite impossibile da spostare, e al contempo ne ha tratto una specie di energia oscura, un moto segreto che le ha permesso di esporsi senza frantumarsi definitivamente.

La sua danza è stata così un'esibizione abissale, sull’impotenza dell’essere umano davanti all’ineluttabile. Nessun eroismo, nessuna sublimazione consolatoria, solo il coraggio disarmante, quasi brutale, di non eludere il dolore, di non addomesticarlo, di lasciargli il volto che ha.

In questo risiede, forse, la parte più perturbante dell’esibizione: il modo in cui Andrea ha saputo vestire il dolore senza teatralizzarlo, senza piegarlo a un facile sentimentalismo. L’ha portato addosso come un tessuto strettissimo, quasi ruvido, e al tempo stesso come un mantello regale: qualcosa che pesa, ma che conferisce anche un inatteso splendore.
 

Al termine dell’esibizione è rimasto qualcosa di perturbante: un silenzio che non era vuoto ma densissimo, come se ognuno avesse percepito di essere stato, senza volerlo, introdotto nel cuore di un dolore non suo.

Il ritorno di Andrea Delogu non ha avuto nulla del trionfalismo televisivo. È stato un atto di fedeltà verso chi non c’è più e che pure continua a muovere, invisibile, ogni passo.

In quel dolore si è intravisto un frammento di eterna resistenza. Un frammento che, pur minuscolo, riesce a dire ciò che nessuna parola osa pronunciare: che anche quando il cuore si spezza, ciò che rimane può ancora, incredibilmente, danzare.

Sul finire dell'esibizione, quando la musica si è dissolta, i versi più crudeli di "Spaccacuore" sono affiorati come una lama nella quiete:

«ed è per questo che son qui

e tu lontana dei chilometri

che dormirai con chi sa chi

adesso lì…»

In quell’“adesso lì”, sospeso come un abisso che non si lascia attraversare, l’intera danza di Andrea Delogu si è contratta in un unico gesto strappato: la distanza irrimediabile, l’assenza che corrode, il dolore che non trova luogo né tregua. È eterno.

Per un istante il palco è parso smettere di esistere, e ciò che restava era soltanto quel grumo di verità incandescente: il dolore che, non potendo più essere detto, si è fatto arte, danza, corpo... per non soccombere.