Bruce Springsteen accende San Siro: attacco a Trump e appello per la libertà, tra rock e resistenza
Dal palco di Milano, rompe il silenzio con un monologo politico che scuote il pubblico. Con i sottotitoli in italiano, chiama a raccolta chi crede ancora nella democrazia
Ci sono concerti che lasciano il segno per l’energia, la musica, le luci. E poi ci sono serate come quella andata in scena a San Siro, dove Bruce Springsteen ha dato vita a qualcosa di più raro e profondo: un atto politico, una dichiarazione d’identità, un’esortazione civile travestita da spettacolo rock.
Con la sua voce ruvida e l’aria da operaio in giacca e cravatta, il Boss ha trasformato la sua esibizione in una chiamata alle armi contro il ritorno dell’autoritarismo. E lo ha fatto con parole semplici, dirette, tradotte in italiano sui maxischermi per non lasciare fuori nessuno.
Fin dall’apertura con No Surrender, si è capito che quella non sarebbe stata una semplice data del tour. Era il ritorno a San Siro a quarant’anni esatti dalla prima volta, ma non c’era spazio per la nostalgia. Springsteen ha parlato chiaro: «Benvenuti nel tour della terra della speranza e dei sogni. La potente E Street Band è qui per invocare il potere dell’arte e del rock’n’roll in tempi pericolosi».
Poi, l’affondo: «A casa mia, l’America che amo, quella che ha ispirato le mie canzoni, è oggi nelle mani di un’amministrazione corrotta e traditrice». Una stoccata netta contro Donald Trump, che non ha bisogno di essere nominato per diventare il bersaglio evidente. Le sue parole scorrono sui megaschermi dello stadio in italiano, affinché ogni spettatore ne colga il peso.
Springsteen parla con l’urgenza di chi sente addosso una responsabilità. «Chiediamo a tutti coloro che credono nella democrazia di alzare la voce contro l’autoritarismo e di far risuonare la libertà», ha detto con tono fermo, tra l’applauso commosso del pubblico. Non è solo un appello al voto o una tirata ideologica, ma una riflessione profonda su ciò che la musica può ancora rappresentare: una voce alternativa, uno spazio di consapevolezza, una resistenza collettiva.
Il resto lo ha fatto la scaletta: The Promised Land, Born to Run, The Rising, suonate con quella passione inarrestabile che solo lui sa mantenere intatta dopo cinquant’anni di carriera. Ma è tra un pezzo e l’altro che il concerto ha preso una piega diversa. Nessun proclama urlato, nessuna retorica da comizio. Solo parole pesate, che parlano della sua America e, in fondo, anche della nostra.
Perché l’uomo sul palco, con la sua voce roca e l’armonica al collo, è lo stesso che ha raccontato gli operai del New Jersey, i sogni infranti, le periferie dimenticate. È il cantore della working class, ma anche di un’America capace di risollevarsi. Ed è per questa America che ora chiede di lottare. «Non c’è tanta umanità quanta se ne vorrebbe», ha detto citando lo scrittore James Baldwin, «ma ce n’è abbastanza». Ed è con quella “abbastanza” che dobbiamo fare resistenza.
Lo stadio, solitamente luogo di euforia, si è fatto improvvisamente tempio. Si ascoltava, si applaudiva, si rifletteva. E mentre lui cantava, con la voce che non perde un colpo e il cuore sempre dalla parte giusta, a Milano sembrava che il tempo si fosse fermato. Non per nostalgia, ma per rispetto.
Il Boss ha ricordato che il rock’n’roll, se ha un senso, è anche questo: raccontare, scuotere, cambiare. E ieri sera, sotto le stelle di San Siro, Bruce Springsteen ha dimostrato che non è solo un artista, ma una coscienza in carne e ossa. E che il palco può ancora essere un altare laico da cui predicare libertà.