Burke, Sarah e Müller, i falchi conservatori al Conclave: «Non siamo finiti, la battaglia continua»
Vecchi dissidenti della Curia, rimasti ai margini durante il pontificato di Francesco, ora entrano in Conclave decisi a farsi sentire. Ma le loro possibilità di incidere appaiono più deboli che mai
Non è un’alleanza, né una squadra. È più un istinto di resistenza, l'ultima difesa di un'idea di Chiesa che sente franare sotto i colpi della storia. Raymond Leo Burke, Robert Sarah e Gerhard Ludwig Müller entrano nel Conclave del 7 maggio con poche certezze e molti rimpianti. Non sono in grado di imporre un successore, difficilmente riusciranno a eleggere uno dei loro. Ma sono decisi a far pesare la loro voce, almeno come monito: a dire che non tutto, nella Chiesa di oggi, è pronto ad arrendersi al vento del cambiamento.
È una fronda che viene da lontano. Quando Jorge Mario Bergoglio si affacciò dalla loggia di San Pietro, undici anni fa, i loro sguardi erano già carichi di sospetto. Quel nome, Francesco, quella rinuncia ai segni del potere, quell’annuncio di una Chiesa "povera per i poveri" sembravano l’inizio di un’era diversa. Non c'era bisogno di attendere le prime riforme per capire che qualcosa si era spezzato. Qualcosa che loro, i custodi della dottrina, non avrebbero dimenticato.
La rottura con papa Francesco
Nei primi anni, la loro opposizione fu prudente, quasi silenziosa. Un mormorio di corridoio, un comunicato formale, una riserva espressa nei modi antichi della diplomazia curiale. Ma bastò il doppio sinodo sulla famiglia, nel 2014 e 2015, a scoperchiare tutto. Quando, con Amoris Laetitia, Francesco aprì alla possibilità che i divorziati risposati potessero ricevere l'Eucaristia, la diga crollò.
Fu allora che quattro cardinali – Burke, Brandmüller, Meisner e Caffarra – pubblicarono i famosi "dubia", chiedendo al Papa di chiarire se la dottrina tradizionale fosse stata tradita.
Francesco non rispose. Mai. Scelse il silenzio, lasciando che la fronda si incattivisse da sola, che si sfilacciasse tra rigidità dogmatiche e nostalgie rituali. E mentre gli anni passavano, i protagonisti di quella resistenza invecchiavano, morivano (Caffarra e Meisner), si ritiravano nell’irrilevanza.
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Oggi, Burke, Sarah e Müller restano in campo. Più come simboli che come strateghi. Burke, il canonista americano, amante delle messe in latino e dei paramenti sontuosi, ha costruito il suo piccolo impero personale negli Stati Uniti, tra fedeli tradizionalisti e benefattori conservatori. La sua voce è forte, la sua influenza debole. Francesco, nel tempo, gli ha tolto ogni incarico, ogni privilegio, costringendolo a lasciare l’appartamento vaticano e a rinunciare al piatto cardinalizio. Ma non gli ha tolto il pulpito: Burke continua a parlare, a scrivere, a infiammare l’America cattolica più oltranzista.
Sarah, africano, ha scelto un altro stile. Meno provocatore, più raccolto. Non ama la polemica pubblica, ma i suoi libri – come La forza del silenzio o Dal profondo del nostro cuore – sono un manifesto di resistenza al cambiamento. Difende la liturgia tradizionale, il celibato sacerdotale, la centralità del sacrificio eucaristico. Quando Bergoglio decise di limitare la Messa in latino con Traditionis Custodes, Sarah lo subì come un affronto personale. Ma non ha mai alzato la voce come Burke. Preferisce aspettare. Pregare. E, forse, votare compatto in Conclave contro i candidati percepiti come troppo progressisti.
Müller, infine, è il teologo del gruppo. Prefetto della Dottrina della Fede sotto Benedetto XVI, confermato da Francesco e poi prepensionato bruscamente, ha reagito con una serie di interventi pubblici che oscillano tra la denuncia dottrinale e il livore personale. Non si è mai ripreso dall’umiliazione subita, e oggi si presenta in Conclave come una figura solitaria, più ammirata dai nostalgici di Ratzinger che ascoltata dagli altri porporati.
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Eppure, nonostante la determinazione, i numeri sono impietosi. I conservatori non hanno la forza per eleggere un loro candidato. Non hanno nemmeno un nome condiviso da proporre. Burke, Sarah e Müller si guardano in cagnesco almeno quanto guardano con sospetto i moderati. Non esiste un "partito conservatore" nel Collegio cardinalizio, esistono frammenti, nostalgie, retaggi personali.
Il vero obiettivo, allora, non sarà eleggere, ma bloccare. Evitare che salga un "Francesco II", un riformista che spinga ancora più avanti l'apertura verso i divorziati, gli omosessuali, il dialogo interreligioso, la decentralizzazione delle decisioni. Tentare di costringere il Conclave a convergere su una figura meno esposta, più tradizionale. Un pontefice che freni l'accelerazione, che riporti disciplina e ortodossia al centro.
Ma anche questo compito sembra arduo. La maggioranza dei cardinali elettori, pur senza essere radicalmente progressista, non vuole tornare indietro. Non vuole una Chiesa chiusa su se stessa, prigioniera delle battaglie identitarie. E molti sanno che una restaurazione, in questo momento storico, sarebbe il modo più sicuro per accelerare l’irrilevanza del cattolicesimo in larga parte del mondo.
Così, mentre il Conclave si avvicina, Burke, Sarah e Müller si preparano all’ennesima battaglia.
Sapendo che sarà, con ogni probabilità, una battaglia persa. Combattuta dentro la Sistina in memoria di un’altra Chiesa, quella che temono stia per svanire.