Caso Shalabayeva, confermata la condanna ai 5 poliziotti accusati di sequestro di persona
I giudici confermano il verdetto di Perugia con interdizione ridotta a cinque anni: per loro non fu una semplice espulsione irregolare. La donna in aula: «Sentenza giusta». Difese pronte al ricorso.
La Corte d’Appello di Firenze ha confermato le condanne per i cinque poliziotti imputati nel processo bis sul rimpatrio di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa insieme alla figlia Alua nel maggio 2013. I giudici hanno ribadito l’impianto del primo grado celebrato a Perugia, con una parziale riforma che riguarda l’interdizione dai pubblici uffici: non più perpetua ma limitata a cinque anni. Per Renato Cortese, Maurizio Improta, Francesco Stampacchia e Luca Armeni la pena resta di cinque anni; quattro per il funzionario Vincenzo Tramma. Per tutti l’accusa è quella di sequestro di persona, contestazione che la Corte ha ritenuto nuovamente fondata.
Nessuna assoluzione, nonostante il sostituto procuratore generale Luigi Bocciolini avesse chiesto di prosciogliere gli imputati “perché il fatto non sussiste”, sostenendo che l’espulsione fosse stata eseguita rispettando la legge e che la stessa Shalabayeva non avesse mai fornito un passaporto valido né dichiarato la propria identità reale. La decisione di Firenze restituisce dunque centralità alla ricostruzione accusatoria: quella secondo cui le procedure furono irregolari, accelerate oltre ogni prassi e tali da configurare una privazione illegittima della libertà.
In aula gli imputati erano presenti insieme ad Alma Shalabayeva, che al termine dell’udienza ha commentato in italiano: “Sentenza giusta”, ringraziando i suoi legali. Di tutt’altro tenore la reazione della famiglia, affidata al portavoce Marc Comina, che ha parlato di “scioccante leggerezza” da parte dei poliziotti nell’aderire alla versione fornita dai rappresentanti del Kazakistan. “Hanno servito gli interessi di una dittatura e perseguito un dissidente politico come mio marito”, ha dichiarato, ricordando il contesto di violazione dei diritti umani nel Paese centroasiatico.
Per comprendere il peso di questa sentenza bisogna tornare a quella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013. La Polizia fece irruzione in una villa di Casalpalocco alla ricerca di Ablyazov, in quel momento ricercato a livello internazionale, ma all’interno trovò solo la moglie e la figlia di sei anni. La donna venne trovata in possesso di un passaporto ritenuto falso e, nel giro di 48 ore, venne predisposto il rimpatrio. Secondo l’accusa, la rapidità dell’operazione e il mancato approfondimento sulla condizione della donna — moglie di un noto oppositore politico — costituirono una violazione del diritto d’asilo e un aggiramento delle cautele previste in casi simili.
L’inchiesta della Procura di Perugia mise in luce quello che all’epoca venne definito “un rapimento di Stato”. Pur senza ricostruire fino in fondo la catena di comando, gli atti portarono a ipotizzare pressioni dirette da parte di tre diplomatici kazaki e coinvolgimenti istituzionali mai completamente chiariti. Il nome del Viminale, allora guidato da Angelino Alfano, comparve più volte nel dibattito politico e mediatico, ma nessuna responsabilità gerarchica venne formalmente contestata. A processo finirono soltanto i funzionari operativi e la giudice di pace Stefania Lavore, che firmò il decreto di espulsione.
Nel 2020 arrivò la prima condanna, dura e quasi doppia rispetto alle richieste della Procura, con pene tra i due anni e mezzo e i cinque anni. Gli imputati negarono sempre l’esistenza di ordini “dall’alto” e ribadirono di non aver mai saputo che la donna fosse legata a un dissidente politico, sostenendo di aver agito in base ai documenti forniti e nel rispetto della normativa. Due anni dopo, però, la Corte d’Appello di Perugia ribaltò tutto, assolvendo gli imputati e ritenendo che non ci fossero elementi sufficienti per sostenere l’impianto accusatorio.
I giochi sembravano chiusi, finché la Procura di Perugia non decise di presentare ricorso in Cassazione. E la Suprema Corte accolse l’istanza, annullando l’assoluzione e disponendo un nuovo processo d’appello. Da qui la riapertura del caso davanti ai giudici di Firenze, che con la sentenza depositata ora riportano la vicenda al punto di partenza, confermando la responsabilità degli imputati e rinviando alle motivazioni, attese entro 90 giorni, il compito di spiegare perché la versione difensiva non sia stata ritenuta credibile.
Per i legali degli imputati, già in aula, la linea è chiara: si andrà nuovamente in Cassazione. Una battaglia giudiziaria che dura da più di dieci anni e che continua a rimanere uno dei capitoli più opachi e controversi della recente storia amministrativa italiana, sospesa tra errori procedurali, pressioni internazionali e responsabilità che, a distanza di oltre un decennio, il sistema giudiziario sta ancora tentando di definire.