Dall’urgenza finta alle pene sproporzionate: tutte le ragioni con cui la Cassazione ha seppellito il decreto sicurezza
In 129 pagine i giudici mettono nero su bianco che il provvedimento è un minestrone eterogeneo e pericoloso, adottato senza reali motivi d’urgenza e col rischio di violare la Costituzione. Una demolizione punto per punto, con 33 criticità nel merito
Non è una critica, è una demolizione. Non è una valutazione politica, ma una radiografia clinica di un provvedimento che – nero su bianco – per la Cassazione è viziato nel metodo, pieno di falle nel merito e, soprattutto, sospettato di incostituzionalità. In 129 pagine fitte di analisi e argomentazioni giuridiche, la relazione n. 33/2025 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione infligge il colpo più duro al decreto sicurezza del governo Meloni.
Un parere non vincolante, è vero, ma giuridicamente pesantissimo: una sentenza annunciata sulla tenuta costituzionale di un testo che avrebbe dovuto occuparsi di sicurezza e invece – scrivono i giudici – è diventato «un veicolo celere della normativa recata dal ddl», una scorciatoia per aggirare le discussioni in Parlamento.
Per cominciare, manca del tutto il presupposto essenziale per legiferare con decreto: la «necessità e urgenza». La Cassazione lo dice senza giri di parole: «Non c'è stato alcun fatto nuovo configurabile come caso straordinario di necessità e di urgenza». E ancora: «Il ricorso al decreto-legge non può fondarsi su una apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza». Tradotto: non basta che lo dica il governo, serve che esista davvero.
Anzi, la Corte ricorda che la trasformazione di un disegno di legge in un decreto legge è una prassi rarissima, mai vista in ambito penale. Infatti, «la prassi parlamentare annovera due soli precedenti di trasposizione dei contenuti di un progetto di legge in discussione in Parlamento in un decreto-legge», ma «nessuno dei due riguardava la materia penale».
E se non bastasse, c’è il problema dell’eterogeneità. Il decreto è un’accozzaglia di norme su carcere, cortei, cannabis light, terrorismo, cani antidroga e servizi segreti. Non un provvedimento organico, ma una raccolta di misure disparate, «nato eterogeneo come lo era l’originario ddl che ha interamente trasfuso». Per i giudici, ciò configura «ulteriore profilo della disomogeneità, vizio considerato figura sintomatica dell’insussistenza dei presupposti giustificativi del provvedimento d’urgenza».
Ma se il metodo è traballante, il contenuto è ben peggiore. Il cuore dell’analisi della Cassazione è nella critica all’intero impianto sanzionatorio del decreto. La discrezionalità del legislatore, si legge, «non equivale ad arbitrio». Le pene, soprattutto quelle che incidono sulla libertà personale, «devono ritenersi suscettibili di controllo». Perché altrimenti si corre il rischio di «comminare una sanzione non proporzionata all’effettiva gravità del fatto».
Ed è proprio ciò che accade qui, secondo i giudici. Il decreto introduce 14 nuovi reati e 33 norme controverse, molte delle quali, si legge, rischiano di «compromettere manifestazioni di dissenso» e criminalizzare comportamenti che «molto spesso sono costituiti da riunioni pacifiche e atti di resistenza passiva, con l’effetto di incidere profondamente sull’attività di pubblica manifestazione del dissenso».
A preoccupare di più è proprio il tentativo, secondo i giudici, di silenziare ogni forma di opposizione. Dalla nuova aggravante per chi incita alla disobbedienza in carcere, alle aggravanti per chi manifesta dentro o fuori le stazioni ferroviarie o la metro, fino ai nuovi reati di rivolta carceraria e resistenza passiva nei Cpr. Una vera e propria “normativa anticortei”, che trasforma l’esercizio dei diritti in fattispecie penali.
Altri articoli del decreto scatenano l’allarme dei magistrati. Come quello che autorizza il carcere per le donne incinte o con figli piccoli, in «patente violazione dei principi costituzionali di tutela della maternità e dell’infanzia», e quello che rende impunibili gli agenti dei servizi segreti anche quando creano gruppi eversivi o terroristici a fini preventivi. Una norma che, si sottolinea, scavalca ogni forma di controllo democratico, aprendo la strada a un uso arbitrario del potere investigativo.
E poi c’è la norma più inquietante: quella sul terrorismo della parola. Punisce non solo la propaganda, ma anche «la sola detenzione di materiale propedeutico al terrorismo». Ma, scrive la Cassazione, «la norma rischia di anticipare eccessivamente la soglia di punibilità, criminalizzando condotte preparatorie che potrebbero essere distanti e slegate dall’effettiva commissione di un reato».
Tra le pieghe del decreto si nasconde anche il divieto di vendere cannabis light. Ma «in assenza della dimostrazione che l’uso possa provocare effetti psicotropi o nocivi sulla base dei dati scientifici disponibili e condivisi», avverte la Cassazione, «potrebbe confliggere con principi di rango costituzionale», in particolare con la libertà di iniziativa economica.
Già, i primi a rischiare le nuove norme sono stati i lavoratori in sciopero. È successo a Bologna, dove i metalmeccanici hanno occupato la tangenziale per protestare sul contratto. A loro potrebbe essere contestato il nuovo reato di blocco stradale: pena da sei mesi a due anni. Una fattispecie nuova di zecca, che la Cassazione contesta nel principio e nel metodo.
Non manca l’inevitabile confusione normativa anche sul fronte antimafia. Una norma consente al prefetto di limitare gli effetti delle interdittive se danneggiano il sostentamento del titolare dell’impresa: una misura che, secondo la Cassazione, è in contrasto con «consolidata giurisprudenza e procedure». Un’altra prevede il licenziamento in tronco di dipendenti con parentele mafiose, una misura che «viola i principi costituzionali» e getta ombre pesanti sulla tenuta del diritto del lavoro.
Per la Suprema Corte, il decreto sicurezza non solo è sbagliato nel metodo, ma è «foriero di numerosi vizi di incostituzionalità». La relazione si chiude con un monito durissimo: «diritti personali e legislazione penale sarebbero materie di competenza delle Camere», non del governo in solitaria. E la sproporzione tra reato e pena, la disomogeneità del testo e le limitazioni ai diritti fondamentali «configurano vizi di manifesta irragionevolezza e di violazione del principio di proporzionalità».
Adesso la parola passa alla Corte Costituzionale. Ma dopo questo parere, non sarà facile per il governo Meloni difendere il suo decreto simbolo. Perché, come scrive la Cassazione, «non è sufficiente l'intento di evitare ulteriori dilazioni parlamentari per giustificare la scorciatoia dell’urgenza». E uno Stato di diritto non può sopravvivere a forza di scorciatoie.