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29/06/2025 ore 10.09
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Duecentomila cuori contro Orban: un fiume di persone per il Pride che ridipinge Budapest di Europa

Ieri l’amore ha marciato, l’odio è rimasto dietro le transenne. È stata una dichiarazione politica, un avvertimento, un promemoria all’Unione europea affinché non chiuda gli occhi

di Francesco Vilotta
People wave a rainbow EU flag as they take part in the Budapest Pride parade in Budapest downtown on June 28, 2025, as the capital's municipality organised this march by the LGBTQ community, celebrating freedom, in a move to circumvent a law that allows police to ban LGBTQ marches. Hungary's Prime Minister had announced that police will not "break up" Saturday's Budapest Pride march despite issuing a ban, but warned attendees and organisers about the legal consequences. His ruling coalition amended laws and the constitution earlier this year to prohibit the annual celebration, advancing his widely condemned, years-long clampdown on LGBTQ rights in the name of "child protection". (Photo by Attila KISBENEDEK / AFP)

C’è un confine invisibile che taglia l’Europa in due. Non è fatto di filo spinato né di muri di cemento armato, ma di decreti, divieti, proclami di chi governa a colpi di paura. Quel confine, ieri, si è sciolto per qualche ora sotto un fiume di bandiere arcobaleno, cori, mani intrecciate, risate e passi di danza.

Pride a Budapest, Elly Schlein in corteo canta “Bella ciao”. L’ultradestra blocca il ponte Szabadsag

Duecentomila persone hanno invaso Budapest, come non succedeva dal 1989, quando l’Ungheria scese in strada per dire addio al comunismo. Questa volta non c’era un Muro di Berlino da abbattere, ma un muro più subdolo: quello dell’odio di Stato, dei bavagli, dei divieti di amore.

Quasi duecentomila donne, uomini, ragazzi, famiglie, parlamentari, coppie etero e coppie arcobaleno hanno camminato fianco a fianco, più forti delle telecamere di sorveglianza piazzate a spiare i volti, più ostinati dei proclami dell’ultradestra che aveva promesso di sbarrare i ponti e invece è rimasta a guardare, sparuta, muta, di fronte a una folla che nessuna diga poteva fermare.

C’erano tutti, ieri, a marciare sul ponte della Libertà: Greta Thunberg stretta tra i giovani attivisti, Elly Schlein che intona Bella ciao e la piazza ungherese che risponde a voce piena, come se quella vecchia canzone partigiana fosse di tutti, come se fosse una lingua comune che traduce la libertà. E poi ancora sindaci, deputati europei, leader di partiti, arrivati da mezza Europa a dire una cosa semplice: tu, Viktor Orbán, puoi cambiare le leggi, puoi minacciare, puoi spegnere le voci. Ma non puoi vietare l’amore.

Sui cartelli, in mezzo alle bandiere arcobaleno e ai palloncini colorati, c’era scritto anche altro: “Decidi, Ursula: Orban o la democrazia”. Perché questa marcia non è stata solo un Pride. È stata una dichiarazione politica, un avvertimento, un promemoria all’Europa che chiude un occhio sui muri, sui dossier, sulle libertà strappate pezzo per pezzo.

Nel cielo di Budapest, per un pomeriggio, si è alzato un striscione lungo cento metri: la bandiera blu dell’Europa, portata a braccia da una generazione che non vuole lasciarsi rubare la parola futuro. I ponti, minacciati di blocco dall’estrema destra di Patria Nostra, sono rimasti aperti. E quando qualcuno ci ha provato, ha trovato davanti non polizia in assetto di guerra ma migliaia di mani alzate, di sorrisi disarmanti, di slogan urlati a ritmo di musica sparata dai camion.

Nel frattempo, mentre il corteo ballava, cantava, si baciava, la polizia diffondeva un comunicato surreale: “Traffico caotico, poca collaborazione dei manifestanti”. Come se la libertà fosse un ingorgo da sbloccare, come se un milione di passi potesse mettersi in fila ordinata, chiedere permesso.

No, la libertà non collabora. La libertà cammina, travolge, si prende lo spazio che le spetta.

C’erano anche i profeti di sventura, due ragazzi barbuti venuti dal Nord, crocifisso e Bibbia in mano, a lanciare anatemi. Nessuno li ha presi sul serio. La folla li ha aggirati come si aggira una pozzanghera dopo la pioggia: senza rancore, ma senza fermarsi.

Alla fine, nessun incidente. Solo volti sudati, mani che si salutano, cori che si perdono sui marciapiedi. E un messaggio che resta nell’aria umida di giugno: Budapest non è più sola. L’Europa non può chiudere gli occhi. E Orbán, Viktator come lo chiamano qui, non è eterno.

Lo sa anche lui, che ieri ha preferito postare una foto bucolica con i nipoti: un modo come un altro per fingere normalità mentre fuori la città gli passava sopra la testa.

Ieri a Budapest l’amore ha marciato, l’odio è rimasto dietro le transenne. E se è vero che un confine invisibile separa ancora l’Europa libera da quella che sogna di tornare chiusa, ieri, per qualche ora, quel confine è diventato fragile come carta velina sotto la pioggia.

Lo hanno bagnato duecentomila cuori. Non basteranno a rovesciare un regime. Ma bastano a ricordare che la Storia non ama i divieti. E non si può vietare l’amore.