Epstein, nuove mail travolgono Trump: il Thanksgiving insieme nel 2017 e i consigli segreti a Bannon riaprono il caso
Le email desecretate dalla commissione Vigilanza della Camera Usa smontano la versione del presidente sul rapporto interrotto con Epstein. Nelle carte anche sei giorni di messaggi in cui il finanziere istruisce Steve Bannon su comunicazione e apparizioni tv.
Torna a galla, con forza inaspettata, il fantasma più scomodo per Donald Trump. Il nome di Jeffrey Epstein – il finanziere pedofilo morto in cella nel 2019 – ricompare in una serie di email rese pubbliche dalla commissione di Vigilanza della Camera americana, e il contenuto ha la potenza di una detonazione politica: Epstein sostiene di aver trascorso il Thanksgiving del 2017 proprio con Trump, in compagnia di altre persone. Una circostanza che, se confermata, demolirebbe una delle affermazioni più ripetute dal presidente: quella di aver chiuso ogni rapporto con Epstein “intorno al 2004”.
Epstein, nuove mail scuotono Washington: «Trump passava ore con Virginia a casa mia». E il fratello accusa: «Jeffrey non si è suicidato»A rilanciare i contenuti è stata una serie di media statunitensi che hanno analizzato le carte, notando come la ricostruzione del finanziere nelle mail incrini in modo profondo la narrativa ufficiale dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Non si tratta di un retroscena marginale. Il 2017 è l’anno in cui Trump è già alla guida degli Stati Uniti e rivendica una postura distante da quel passato fatto di feste a Mar-a-Lago, amicizie ingombranti e fotografie che oggi considera tossiche. Il Thanksgiving insieme, ammesso da Epstein in un messaggio ritrovato negli archivi digitali, racconta tutt’altro.
E non è l’unica rivelazione. Il Guardian ha ricostruito un secondo segmento della corrispondenza: una serie di scambi tra il 17 e il 23 agosto 2018, sei giorni di messaggi nei quali Epstein agisce da consigliere ombra di Steve Bannon. Gli scrive, lo guida, gli suggerisce come affrontare le apparizioni televisive e quali linee comunicative adottare per difendere Trump e il suo programma politico. Quelle conversazioni, inviate da un account iMessage associato a un indirizzo di Epstein, contengono riferimenti precisi: il licenziamento di Bannon dalla Casa Bianca avvenuto un anno prima, il coinvolgimento nel documentario “Trump @War”, gli appuntamenti su Fox News. Il nome del destinatario è oscurato, ma il contesto non lascia dubbi.
Il quadro che si compone è quello di un Epstein non affatto isolato nei mesi che precedono la sua incriminazione del 2019, ma ancora ben inserito nelle reti di potere repubblicane, capace di muoversi nel backstage politico e di offrire indicazioni a uno dei più influenti strateghi del trumpismo. È un dettaglio che pesa. Perché contraddice l’idea di un taglio netto, di una distanza presa da tutti, di una storia sepolta nel passato.
Trump, prevedibilmente, sceglie l’attacco. Su Truth Social liquida ogni nuovo sviluppo definendolo “una bufala dei democratici”. E rilancia un argomento già utilizzato in passato: “Epstein era un democratico ed è un problema dei democratici, non dei repubblicani. Chiedete a Bill Clinton, Reid Hoffman, Larry Summers: loro sanno tutto di lui”. Una linea difensiva che ribalta i ruoli e tenta di spostare l’attenzione su altri protagonisti della vita politica americana. Ma non cancella il punto centrale: le email che la commissione ha pubblicato sembrano contraddire direttamente le sue dichiarazioni.
Il presidente prosegue citando “50.000 pagine di documenti già pubblicati dal Dipartimento di Giustizia”, accusa i democratici di usare la storia di Epstein per coprire le difficoltà interne dopo lo shutdown e definisce “ingenui” quei repubblicani che, secondo lui, avrebbero abboccato al presunto diversivo. È una risposta furiosa, segno che la questione non è considerata irrilevante.
Il contesto politico spiega il nervosismo. Da quando il Congresso ha ripreso in mano il dossier Epstein, la pressione è cresciuta. Le rivelazioni sulle mail, la presenza di comunicazioni ancora segrete e la richiesta di desecretare completamente i file rimasti negli archivi federali alimentano il sospetto che la vicenda sia ben lontana dall’essere chiusa. E se nell’opinione pubblica americana la figura di Epstein è un concentrato di scandalo, abusi, ricatti e connessioni oscure, ogni accostamento all’attuale presidente rischia inevitabilmente di trasformarsi in un detonatore politico.
La questione del Thanksgiving 2017 è, da questo punto di vista, la più bruciante. Una festa tradizionalmente familiare, passata – secondo Epstein – in presenza del presidente degli Stati Uniti, appare incompatibile con la versione di Trump che da anni sostiene di aver “tagliato i ponti” con il finanziere dopo la disputa immobiliare del 2004. E non è un dettaglio tecnico: è un nodo di credibilità. Perché un rapporto interrotto da oltre un decennio difficilmente può conciliarsi con un pranzo festivo condiviso sotto la sua presidenza.
Nel frattempo, il fronte Bannon apre un altro scenario. Quei messaggi mostrano un Epstein che non solo aveva mantenuto contatti, ma continuava a interagire con figure chiave del trumpismo, entrando nella costruzione della narrazione mediatica in uno dei momenti più intensi del mandato. Un dettaglio che potrebbe attirare l’interesse non solo della politica, ma anche degli inquirenti che da anni tentano di ricostruire il perimetro delle relazioni del finanziere.
Ora il dossier è destinato a tornare sul tavolo del dibattito nazionale. Le opposizioni insistono perché tutti i documenti siano resi pubblici. Le nuove email, diffuse dalla commissione Vigilanza, hanno già riaperto un fronte che sembrava assopito. E ogni ulteriore frammento può trasformarsi in un ulteriore colpo alla narrazione del presidente, in un anno politicamente decisivo.
Nella politica americana, il passato non passa mai davvero. E Jeffrey Epstein, nonostante la morte in una cella di New York, continua a tornare. A volte come un’ombra, altre come un’accusa implicita. Questa volta lo fa con due mail: una cena del 2017 e una manciata di messaggi del 2018 che rischiano di diventare un problema molto più grande di quanto Trump voglia ammettere.