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16/11/2025 ore 06.30
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Attentato a Ranucci, nuovo fascicolo della Procura: i nove inviati di Report denunciano un «metodo mafioso»

Nelle 28 pagine firmate dai giornalisti del programma si sostiene che l’attacco fosse destinato all’intera squadra e ai patrimoni informativi delle inchieste. Sentiti i primi testimoni. Sullo sfondo, intimidazioni e minacce già ricevute negli ultimi anni

di Luca Arnaù

È una ferita che non si è ancora rimarginata, quella lasciata dall’esplosione che lo scorso ottobre ha divorato l’auto di Sigfrido Ranucci e quella della figlia. Una deflagrazione nitida, calibrata, capace di trasformare un parcheggio in un campo di detriti incandescenti. Oggi, a mesi di distanza, la procura di Roma riapre il cassetto di quella notte e lo fa con un nuovo fascicolo, spinta da una denuncia che arriva dall’interno della redazione di Report: nove inviati, nove firme, nove voci che parlano di «violenza privata aggravata dal metodo mafioso» e di un attacco pensato per colpire molto più del singolo conduttore.

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La denuncia è stata depositata al comando provinciale dei carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci, trasformando un episodio già grave in qualcosa di più strutturato, più inquietante, più vicino a un avvertimento corale che a una vendetta personale. Paolo Mondani, Daniele Autieri, Luca Chianca, Giulia Innocenzi, Salvatore Walter Molino, Danilo Procaccianti, Emanuele Bellano, Giorgio Mottola e Claudia Di Pasquale hanno messo per iscritto ciò che la redazione sussurrava da settimane: che l’attentato non era solo «contro Ranucci uomo e giornalista», ma aveva il respiro largo delle intimidazioni che puntano a spezzare un’intera matrice editoriale.

Le 28 pagine dell’esposto raccontano proprio questo. Parlano di una struttura, quella di Report, che non coincide con la figura del singolo conduttore e che concentra decine di inchieste, informazioni sensibili, piste aperte, testimonianze raccolte con mesi di lavoro. «È ben probabile», scrivono i firmatari, «che il movente dell’agire degli attentatori possa risiedere in alcuni specifici lavori di inchiesta che non sono di diretto appannaggio di Ranucci». La logica è la stessa delle intimidazioni alle redazioni antimafia: colpire un simbolo per far vacillare tutti.

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I nove inviati ricordano come l’attacco abbia generato un clima di apprensione costante, una tensione che non riguarda solo i contenuti già andati in onda ma anche quelli in preparazione. La lista è lunga e attraversa alcuni dei fronti più sensibili della storia italiana: la trattativa Stato-mafia, la strage di Bologna, la criminalità albanese, l’infiltrazione della ’ndrangheta in Veneto, le opere strategiche come il ponte sullo Stretto, il caso Visibilia, i dossier su Paragon, le vicende processuali di Eni. Temi che toccano nervi scoperti, poteri profondi, interessi economici e politici stratificati.

La procura di Roma, con il pm Carlo Villani, è pronta a sentire gli autori dell’esposto. Nei prossimi giorni potrebbero essere ascoltati uno a uno, per ricostruire il quadro di pressioni e minacce che fa da sfondo all’attentato. Anche Ranucci potrebbe essere richiamato dai magistrati: non più solo come vittima, ma come testimone di un sistema intimidatorio che da tempo lambisce la redazione. E non è la prima volta che accade. Nel novembre 2024 in redazione erano arrivati messaggi che invocavano «una strage in stile Charlie Hebdo», un paragone che da solo basterebbe a definire la qualità dell’odio proiettato contro il programma.

Il riferimento al «metodo mafioso», nel linguaggio giudiziario, non è un’iperbole. Gli inviati lo inseriscono perché percepiscono lo schema dell’intimidazione organizzata, non episodica, capace di modulare pressione e terrore. Non è un semplice gesto vandalico, scrivono, ma «un attacco rivolto a uno o più patrimoni informativi», un tentativo di colpire le indagini condotte dai singoli giornalisti. È un modo per dire che l’esplosione non ha cercato di punire, ma di prevenire: far capire che certe piste non devono essere esplorate, che certi reportage devono essere rallentati, che certi nomi non vanno pronunciati.

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A rendere ancora più cupo lo scenario c’è la sensazione, diffusa tra gli autori dell’esposto, che gli attentatori abbiano osservato da vicino i movimenti della squadra. L’auto distrutta non era quella di servizio, ma quella privata del conduttore. Era parcheggiata in un’area che non si raggiunge per caso. E la potenza dell’esplosione era sufficiente a colpire chiunque si avvicinasse nel momento sbagliato. Un messaggio calibrato, dunque, che parla la lingua delle organizzazioni che usano la paura come strumento di persuasione.

La nuova indagine della procura si muove proprio su questo crinale. Non cerca solo un nome, ma una matrice. Analizza gli incroci tra le inchieste trattate dal programma e i territori criminali che avrebbero avuto interesse a far saltare un tassello della sua macchina narrativa. È un lavoro complesso, perché Report tocca dossier che attraversano mafia, politica, grandi aziende, ambienti giudiziari e finanziari. Ogni traccia potrebbe aprire una pista, ma anche un depistaggio. È il rischio di chi lavora sui fronti più delicati del Paese.

Nessuno in procura, almeno ufficialmente, parla di accelerazione. Ma il nuovo fascicolo, insieme alla denuncia dei nove inviati, segna un salto di qualità: non più un solo attentato da ricostruire, ma un contesto da capire, una minaccia che si allarga, un attacco che potrebbe avere obiettivi molteplici. È una storia ancora tutta da scrivere, che adesso passa nelle mani degli inquirenti. Nel frattempo, nella redazione di Report, ogni telefonata sconosciuta, ogni macchina che rallenta, ogni rumore dietro un portone assume un peso diverso. Perché un’esplosione non ferisce solo un’auto: ferisce una redazione, un metodo, un’idea di giornalismo. E lo fa nel silenzio della notte, quando la città dorme e la libertà di informare diventa una resistenza quotidiana.