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21/06/2025 ore 11.14
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Europa spettatrice in un mondo che brucia: Usa, Cina, Russia e Israele riscrivono il potere globale. Che fine ha fatto il piano Draghi?

Il vecchio continente vive la sua eterna contraddizione: centro economico e culturale del mondo, ma periferia della geopolitica. Mentre gli altri giganti mondiali consolidano il loro peso, noi restiamo a guardare

di L. F.
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«O l’Europa cambia, oppure uscirà dalla storia». L’ex presidente della Bce lo ripete da mesi. E da mesi traccia il percorso obbligato: rafforzare l’industria, difendere la competitività tecnologica, investire in difesa e soprattutto unificare le politiche strategiche, economiche e militari. Serve, in breve, un’Unione più simile a una federazione che un giorno dovrà portare ai veri Stati Uniti d’Europa.

Ma l’Europa continua a vivere la sua eterna contraddizione: centro economico e culturale del mondo, ma periferia della geopolitica. Nelle ore in cui Israele colpisce l’Iran, la Russia consolida il proprio peso in Africa e in Ucraina, la Cina moltiplica le alleanze e si prepara a prendere Taiwan, e gli Stati Uniti negoziano equilibri planetari, Bruxelles resta in silenzio. Osserva, commenta, ma non decide. E non incide.

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La guerra in Medio Oriente è solo l’ultimo palcoscenico dove l’irrilevanza europea si manifesta in tutta la sua drammatica evidenza. Mentre i droni israeliani sorvolano il territorio iraniano e le capitali occidentali si interrogano sul prossimo atto, l’Unione Europea resta senza voce e senza volto. Non ha strumenti militari comuni, non ha una politica estera coerente, non ha leader riconosciuti a livello globale.

In questo scenario, le parole dell’economista Mario Draghi, incaricato dalla Commissione Europea di disegnare un nuovo futuro economico per l’Ue, suonano come un disperato appello alla lucidità. Ma le sue parole sembrano rimanere in sospeso. E il suo piano resta un grande progetto, ma nessuno lavora per metterlo in pratica.

Così la strada è tutta in salita. Al G7 canadese, gli Stati Uniti hanno dettato la linea, alzandosi e lasciando il tavolo senza curarsi troppo delle “preoccupazioni” europee.

L’ipotesi, non ancora confermata, che Washington abbia stretto un tacito patto con Mosca sul futuro della guerra in Ucraina e presto anche per il Medio Oriente, è emblematica: le decisioni vengono prese altrove. E l’Europa, con i suoi continui distinguo, le sue divergenze interne, le sue lentezze burocratiche, resta sempre un passo indietro.

Il paradosso è evidente: l’Europa è circondata da focolai di guerra, dal Medio Oriente all’Ucraina, dai Balcani al Caucaso, ma non riesce a elaborare una strategia di sicurezza propria. Gli Stati membri, in particolare quelli del Sud, restano prigionieri di una cultura pacifista figlia del dopoguerra e della Guerra Fredda. Una cultura che ha rinunciato all’idea stessa della deterrenza, confidando in una diplomazia ormai disarmata.

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Draghi parla di un’industria della difesa integrata, di un budget comune per l’innovazione tecnologica e per le forze armate, di un’Europa capace di parlare con una sola voce nei consessi internazionali. Ma finché ogni Stato continuerà a pensare per sé, o peggio, a rifugiarsi in un nazionalismo impotente, il progetto resterà un sogno. E intanto Israele cambia i confini, la Cina costruisce nuove vie della seta, la Russia riconfigura lo scacchiere post-sovietico, e gli Stati Uniti, nonostante le turbolenze interne, restano l’unica vera superpotenza militare e diplomatica del campo occidentale.

Il futuro dell’Europa dipenderà dalla sua capacità di fare il salto storico che finora ha sempre rinviato. Le crisi globali non aspettano. E mentre il mondo brucia, l’Europa deve decidere se vuole contare o continuare a guardare.