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29/09/2025 ore 09.20
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Felice Maniero senza maschera da Fedez: «Le evasioni le rifarei subito. Il pathos che ti danno non ha eguali»

Nel podcast del rapper, l’ex boss della Mala del Brenta si racconta tra ricordi, pentimento a metà e orgoglio criminale: dal bottino miliardario del Casinò di Venezia ai rapporti con lo Stato.

di Luca Arnaù

Felice Maniero torna a parlare. Lo fa, incredibilmente, con la voce ferma di chi non ha più paura di nulla, nemmeno del giudizio. Nel podcast Pulp di Fedez e Mr. Marra, l’ex boss della Mala del Brenta – l’uomo che negli anni Ottanta mise in ginocchio il Nordest a colpi di rapine, estorsioni e traffici – si racconta con una calma disarmante, dietro una maschera nera e un microfono acceso.

«Le evasioni le rifarei subito. Il pathos che ti danno non ha eguali, soprattutto se si fugge da un carcere speciale», dice quasi con compiacimento. Non una parola di rimorso, ma una nostalgia sottile per quella vita vissuta al limite, tra colpi milionari e fughe cinematografiche.

A 71 anni, “Faccia d’Angelo” sembra ancora legato al mito di sé stesso. Racconta di aver “detto tutto” nel 1994, quando decise di collaborare con la giustizia per convenienza, come ammette senza giri di parole. «Quando ho collaborato, l’ho fatto per convenienza, sì. Ho raccontato tutto quello che avevo fatto. Ma amicizia? No, non mi è dispiaciuto per nessuno».

Dietro la voce, però, riaffiora la malinconia. La stessa che, come rivela il giornalista Maurizio Dianese – che ne ha seguito il caso per il Gazzettino e gli ha dedicato il libro Come me nessuno mai (in uscita per Feltrinelli) – si è trasformata in una lunga depressione. «Mi ha contattato un anno fa», racconta Dianese. «Voleva scrivere l’ultimo libro. Nessuno aveva capito quanto fosse fragile, quanto lo avesse segnato la fuga da Fossombrone e la morte della figlia».

Maniero, però, resta un personaggio doppio: bandito spietato e allo stesso tempo raffinato collezionista d’arte. «Aveva un centinaio di opere di Mario Schifano», spiega Dianese. «Gliele regalava in cambio della cocaina. Tutta la collezione è sparita. E di un presunto autoritratto di Van Gogh, che avrebbe posseduto, non si è mai trovata traccia».

Sul suo patrimonio – stimato in 33 miliardi di lire – sorride: «Non verranno mai trovati perché li ho spesi. Tutti». E aggiunge con ironia: «Rubavamo le forme di Parmigiano, e una bastava quasi per comprarsi una Ferrari».

Poi il capitolo droga. «Io e altri non eravamo d’accordo, ma la metà della banda sì. Nel 1980 non avevamo ancora commesso un omicidio. Poi arrivò il primo, un ragazzo di trent’anni, ucciso a casa sua. Io ero in carcere. È stato per colpa della droga, per le pressioni che arrivavano dal Sud e da Milano».

E la rapina più clamorosa? «Il Casinò di Venezia. Abbiamo preso otto, nove miliardi. Facilissimo, è andata liscia». Poi ricorda il colpo al treno, uno degli episodi più tragici della sua carriera criminale. «Lo fermammo con il freno di sicurezza. Eravamo in cinque. C’era una camera blindata e avevamo messo il tritolo. Ho sparato in aria, sono scappati tutti. Poi ho acceso l’esplosivo. È esploso il vagone, e una ragazza di vent’anni è rimasta uccisa». Si riferisce a Cristina Pavesi, studentessa di Mestre, morta nell’attentato del 1982.

Quell’episodio lo perseguita ancora. «È la cosa che l’ha segnato di più, insieme alla morte della figlia», sottolinea Dianese. Ma anche nel rievocarlo, Maniero non mostra cedimenti. Solo un accenno di fatalismo: «Era il rischio del mestiere».

Nel podcast, l’ex boss svela anche il suo rapporto con lo Stato, o meglio con chi, nello Stato, lo aiutava. «Pagavamo l’ispettore capo della polizia sei milioni al mese. Quello dei carabinieri pure. E poi avevamo un colonnello dei servizi segreti. Tutti stipendiati. Così funzionava: se volevi stare in piedi, dovevi comprare i tuoi guai prima che arrivassero».

Fedez e Mr. Marra lo ascoltano increduli, tra una risata e un silenzio imbarazzato. Quando gli chiedono se oggi rifarebbe tutto, Maniero ci pensa un secondo e risponde: «Forse sì. Mi manca solo l’adrenalina. Il resto no. Il potere, i soldi, le donne… tutte illusioni. Ma l’adrenalina, quella sì, quella era vera».

Alla fine della puntata, la maschera cade. Letteralmente. Maniero mostra il volto segnato, i capelli bianchi, lo sguardo duro e stanco di chi ha vissuto troppe vite in una sola. «Non ho rimpianti – dice – ma ogni tanto sogno ancora di fuggire. Non da un carcere. Da me stesso».

Una confessione che chiude il cerchio di una vita spesa a rincorrere il brivido, e che riporta alla mente il suo vecchio soprannome: Faccia d’Angelo. Ma oggi, di angelico, in lui è rimasto soltanto il fantasma di ciò che è stato.