«Fermiamo l’emergenza carceri»: il grido civile di Mattarella che la politica continua a ignorare
Pacato nel tono ma deciso nel contenuto, il Presidente della Repubblica torna a chiedere interventi immediati per un sistema penitenziario al collasso. E denuncia: «Ogni suicidio negli istituti di pena è una sconfitta dello Stato».
Sergio Mattarella non urla mai. Ma le sue parole, quando toccano i nervi scoperti del Paese, pesano come pietre. Lo ha fatto di nuovo, stavolta parlando di carceri. Con la consueta pacatezza, sì, ma anche con quella fermezza che da mesi – anzi, da anni – accompagna i suoi moniti su un sistema penitenziario ridotto allo stremo, inchiodato da numeri spaventosi, strutture inadeguate, vite spezzate dietro le sbarre. «Porre fine immediatamente», ha scandito. E quando un Presidente della Repubblica usa un avverbio del genere, vuol dire che la misura è colma.
Il contesto è quello dell’annuale incontro con i vertici della polizia penitenziaria. Un’occasione istituzionale, certo, ma che Mattarella ha scelto di trasformare – ancora una volta – in una piattaforma civile. Un discorso asciutto e doloroso, rivolto tanto agli agenti, di cui ha elogiato lo “scrupolo” e la dedizione, quanto alla politica che da troppo tempo volta lo sguardo. «Le condizioni del sistema carcerario sono preoccupanti», ha detto, e non c’è nulla di retorico in quell’aggettivo. Lo stato degli istituti di pena italiani è, più semplicemente, vergognoso.
Il dato più crudele è quello che riguarda i suicidi: 91 nel 2023, un record tragico. E i primi mesi del 2024 non fanno sperare in meglio. Uomini e donne che entrano vivi e, silenziosamente, muoiono nelle celle. Non per mano di altri, ma per disperazione. «Un’emergenza sociale», la definisce Mattarella, che chiede di interrogarsi su «come e perché avvengano queste morti», sottolineando che nessuno, in carcere, può essere lasciato a se stesso. «Per rispetto dei valori della Costituzione, del vostro lavoro, della vostra storia».
Il problema, naturalmente, non è solo quello dei suicidi. Ma di un sistema che nel suo complesso appare sgretolato. Sovraffollamento, carenza di personale, edifici vetusti e inadeguati, assistenza sanitaria spesso assente. Mattarella non si è tirato indietro nemmeno davanti alla questione del caldo estivo, che nelle celle diventa insostenibile. Né ha sorvolato sul rischio – concreto, tangibile – che le prigioni si trasformino in «palestre per nuovi reati». È un paradosso che conosciamo fin troppo bene: il carcere che non rieduca, ma deforma. Che non ripara, ma peggiora. Che non aiuta, ma schiaccia.
Il riferimento, esplicito, è all’articolo 27 della Costituzione. Quello che parla della funzione rieducativa della pena. «Ogni detenuto recuperato è un vantaggio per la sicurezza collettiva», ha ricordato il Capo dello Stato. Parole chiare, scolpite nel marmo della legge fondamentale. Ma che nella realtà si scontrano con celle sovraffollate, personale ridotto all’osso, spazi di socialità inesistenti, educatori troppo pochi, detenuti con problemi psichiatrici senza cure, strutture che cadono a pezzi. E un’idea del carcere sempre più punitiva, vendicativa, disumana.
Non è la prima volta che Mattarella lancia questo grido. Già nel discorso di fine anno aveva chiesto attenzione. E un anno fa, sempre a luglio, aveva denunciato: «Decine di suicidi in sei mesi. È un tema che richiede vera attenzione». La politica, però, continua a fischiettare. A ogni governo che si insedia, il Presidente tende la mano.
Ma spesso riceve in cambio silenzi, promesse generiche o repliche d’ufficio. Come quella del ministro Nordio, arrivata a stretto giro anche questa volta: «Grande attenzione alle parole del Capo dello Stato. I suicidi sono una priorità». Un elenco di misure – supporto psicologico, differenziazione della detenzione, riforme minime – che le opposizioni giudicano, a ragione, del tutto insufficienti.
Chi invece ha reagito con fastidio è il sottosegretario meloniano Delmastro, lo stesso che pochi mesi fa definiva le nuove auto per il 41 bis come «blindati che non lasciano respirare i detenuti». Ora invita la sinistra a «non tirare Mattarella per la giacca», come se fosse il Colle, e non le carceri, il vero problema.
Eppure Mattarella non fa politica. Non ne ha mai fatta. Fa, semplicemente, il Presidente della Repubblica. Custode della Costituzione, voce dei diritti, garante della dignità. Per questo il suo appello non è ideologico, non è strumentale, non è schierato. È umano. E civile. È un richiamo a ciò che dovremmo essere, e che spesso dimentichiamo di essere.
«Lo spazio carcerario non può ridursi a una cella», ha detto ieri. Deve comprendere luoghi per la socialità, per l’affettività, per la progettualità. Solo così il carcere smette di essere una fabbrica di rancore e diventa ciò che la Repubblica ha previsto: un passaggio verso il reinserimento. Ma per farlo servono investimenti, coraggio politico, riforme vere. E, prima ancora, uno sguardo che riconosca l’altro. Anche dietro le sbarre. Anche quando ha sbagliato.
Finché non capiremo questo, finché lasceremo che il carcere sia un non-luogo dove si muore di abbandono, le parole di Mattarella resteranno un grido nel deserto. E ogni suicidio, ogni vita spezzata in silenzio, sarà una vergogna che pesa su tutti noi.