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02/10/2025 ore 13.21
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Flotilla, tra mito e codice penale: perché gli attivisti italiani non finiranno dietro le sbarre

L’articolo 244 del codice penale evoca scenari di guerra e condanne pesanti. Ma la giurisprudenza esclude che iniziative civili non violente possano rientrarvi

di Luca Arnaù
'L'abbordaggio è iniziato'. Lo fanno sapere gli attivisti della Flotilla secondo cui l'intercettazione 'è iniziata dalla barca Alma che risulta isolata', 01 ottobre 2025. GLOBAL SUMUD FLOTILLA +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++ NPK +++

È stata una notte di abbordaggi, idranti e video diffusi sui social. Ma al rientro in Italia, gli attivisti fermati a bordo della Global Sumud Flotilla non troveranno i magistrati ad attenderli con un mandato d’arresto. La domanda che ha iniziato a circolare sui social e in certi ambienti politici – “stanno violando il codice penale italiano?” – ha infatti una risposta chiara: no.

Il riferimento è all’articolo 244 del codice penale, norma che parla di «atti ostili verso uno Stato estero» e prevede condanne durissime, da sei a diciotto anni di carcere, fino all’ergastolo se da quelle azioni scaturisce una guerra. Una disposizione che evoca tradimenti, cospirazioni internazionali e scenari di conflitto aperto. Non un convoglio di barche a vela con a bordo parlamentari, studenti e attivisti dei movimenti civili.

È stata una notte di battaglia nel Mediterraneo: 20 le imbarcazioni intercettate da Israele, 22 ancora in rotta verso Gaza

Eppure, qualcuno ha agitato lo spettro della norma. Perché, in teoria, basta la mancanza di approvazione del governo italiano e la destinazione di un atto “contro uno Stato estero” per evocare il 244. Ma la giurisprudenza è chiara: perché si configuri il reato serve una concreta idoneità a esporre l’Italia a un pericolo immediato di guerra, a rappresaglie o a gravi ritorsioni. Non bastano iniziative simboliche o manifestazioni di dissenso civile. Serve un atto ostile in senso stretto, fatto di aggressione operativa, arruolamenti, sabotaggi o azioni armate.

Qui, invece, la cronaca racconta tutt’altro: equipaggi disarmati, una navigazione dichiarata pacifica, dichiarazioni pubbliche sulla natura umanitaria del viaggio. Perfino gli ordini impartiti dagli attivisti – “non opporre resistenza violenta” – allontanano la possibilità di leggere la missione come “atto ostile”.

A settanta miglia dalla coscienza: dalla Flotilla per Gaza alle piazze d’Europa

Non è la prima volta che il tema si affaccia. Nel 2010, dopo il sanguinoso assalto alla Mavi Marmara, quando dieci attivisti turchi vennero uccisi dai commando israeliani, a bordo c’erano anche cittadini italiani. Nessuno, al rientro, fu mai incriminato per atti ostili. Nel 2015, una nuova flottiglia venne intercettata a 100 miglia da Gaza: stesso copione, nessun processo in Italia.

Il paradosso è che il codice penale prevede pene severissime per condotte che espongano l’Italia a pericoli concreti di guerra o di ritorsioni, ma l’Italia non è mai stata esposta a nulla di simile per le azioni delle flottiglie. Le relazioni diplomatiche con Israele sono rimaste intatte, le forniture militari ed economiche non hanno subito scossoni e nessuna rappresaglia è stata minacciata contro Roma.

A questo si aggiunge un altro aspetto. Il diritto internazionale guarda con sospetto al blocco navale imposto da Israele su Gaza: nel 2011 il cosiddetto Palmer Report, commissionato dall’Onu, lo aveva considerato “misura di sicurezza”, ma altri organismi – dall’Alto commissariato Onu per i diritti umani alla Corte internazionale di giustizia – lo hanno definito sproporzionato e illegale, perché ostacola beni essenziali alla popolazione civile. Per gli attivisti, tentare di forzarlo non è un “atto ostile”, ma un atto legittimo. E se anche la legge italiana non sposa questo ragionamento, di certo la prospettiva internazionale rafforza l’idea che la loro sia stata una missione politica e simbolica, non un’aggressione armata.

Il nodo, insomma, non è giudiziario ma politico. Al massimo, al rientro, i partecipanti italiani alla Flotilla saranno convocati in Parlamento per riferire della loro esperienza, o chiamati nei talk show per raccontare cosa hanno visto. Non rischiano processi né condanne. L’unica vera conseguenza giudiziaria sarà, semmai, l’espulsione da Israele.

Il governo Meloni, da parte sua, non nasconde la critica alla missione: «Un’iniziativa imprudente, che strumentalizza il dramma di Gaza», dicono fonti vicine a Palazzo Chigi. Ma il dissenso politico non si traduce in incriminazioni penali. Perché la legge, in questo caso, è chiara.

La storia della Global Sumud Flotilla entrerà nei libri di cronaca e, forse, di politica estera, ma non nei registri penali italiani. Perché non basta una barca con le vele spiegate verso Gaza per evocare l’ombra di un reato da ergastolo.

In questo quadro, resta una certezza: chi è stato fermato passerà ore difficili tra interrogatori e procedure di espulsione. Ma, tornando a casa, non troverà né manette né processi. E se qualcuno insiste a gridare al “reato di atti ostili”, il diritto – quello vero – risponde con una parola semplice: infondato.