Le suore fuggitive rompono il silenzio: «Trattate come mafiose». Ora la loro storia diventa un documentario tv
Suor Mariastella e le consorelle brasiliane raccontano la fuga dal monastero e le presunte vessazioni subite. «Un clima di terrore. Ora finalmente possiamo sorridere»
Dall’ombra della clausura alle luci della ribalta, passando per una fuga rocambolesca, accuse pesantissime e una telecamera che ora racconta tutto. È diventata un caso internazionale la vicenda delle suore cistercensi fuggite lo scorso aprile dal monastero dei Santi Gervasio e Protasio di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso. Dodici religiose, guidate dall’ex abbadessa brasiliana Madre Aline, hanno lasciato il convento denunciando maltrattamenti, pressioni psicologiche e un clima «da campo di concentramento». Ora, a riaccendere i riflettori è un documentario prodotto da Globo, la più importante rete televisiva brasiliana, che dà voce alle protagoniste della fuga, raccolte nella villa che le ospita oggi, a San Vendemmiano.
Nel filmato, suor Mariastella parla guardando dritto in camera: «Ci trattavano come mafiose. Vivevamo con la paura. La paura di parlare, di respirare, di esistere». Con lei, anche suor Melania, suor Agnese, suor Gabriella, suor Maddalena, suor Maria Paola, suor Aline e altre due consorelle, Pietra e Maria, che pur vivendo fuori condividono il percorso spirituale della comunità. Le immagini mostrano scene di vita quotidiana nella nuova dimora: tavolate allegre, partite a pallavolo, preghiere collettive. «Siamo ancora suore, ma finalmente anche esseri umani», dice una di loro.
La fuga ha avuto l’effetto di una scossa tellurica nella comunità ecclesiale locale. Le suore avevano prima sporto denuncia ai carabinieri, poi si erano rifugiate da amici e parenti, infine avevano trovato accoglienza nella villa ottocentesca donata loro da un benefattore. A scatenare la frattura, l'espulsione dall’Ordine Cistercense di suor Aline e della madre priora suor Maria Paola Del Zotto. Secondo il documentario, la lettera di espulsione sarebbe stata notificata ben prima della loro uscita dal convento e, soprattutto, «senza fornire alcuna prova documentale a sostegno».
Globo, che ha seguito la vicenda con un’inchiesta approfondita, parla di un clima oppressivo all’interno del monastero, dominato dalla figura di Madre Martha Driscoll, 81 anni, subentrata alla guida della comunità dopo l’allontanamento di Aline. La nuova superiora, raccontano le religiose, avrebbe imposto uno stile di vita rigidissimo, con controlli costanti, isolamento, punizioni e umiliazioni. «Non era più vita religiosa. Era sopravvivenza», dichiara una suora nel video. Le accuse sono gravi: vessazioni, pressioni psicologiche, emarginazione. Il documentario non risparmia dettagli, e restituisce l’immagine di una comunità spirituale trasformata in un incubo quotidiano.
Dalla diocesi di Vittorio Veneto, interpellata più volte dalla stampa, è arrivata finora solo una cauta presa di distanza. L’Ordine Cistercense ha preferito mantenere il silenzio. Ma il caso ormai ha travalicato i confini italiani. In Brasile, il Paese d’origine di Madre Aline, la stampa parla apertamente di «suore ribelli» e di un «abuso di potere ecclesiale».
A colpire, nel documentario, è la serenità ritrovata delle protagoniste. «Abbiamo perso il nostro convento, ma abbiamo ritrovato Dio», dice suor Aline. Le religiose hanno ripreso a vivere secondo le regole della loro vocazione, in attesa che il Vaticano si pronunci ufficialmente sulla loro posizione. «Non siamo fuori dalla Chiesa. È la Chiesa che ci ha lasciate sole», dicono. La villa in cui vivono è diventata un luogo di accoglienza, preghiera, ma anche un simbolo di resistenza e rinascita.
Il documentario, disponibile sulla piattaforma online dell’emittente Globo, ha raccolto milioni di visualizzazioni. E ha riaperto il dibattito sul ruolo della donna nella Chiesa cattolica, sulla trasparenza degli ordini monastici e sul diritto delle religiose a vivere la propria fede senza paura.
«Non siamo martiri», conclude suor Mariastella. «Siamo donne. Siamo suore. E abbiamo diritto alla dignità».