Giorgia Meloni superstar alla festa Libero: selfie, sovranismo a mille e carezze al suo Donald
Ospite per i 25 anni dalla nascita del quotidiano, la premier si prende la scena: attacca la sinistra, esalta l’Italia sovrana e difende la legge sulla cittadinanza: «Cinque anni? Una sciocchezza da salotto elegante». Intanto rivendica l’intesa spirituale con Trump: «Ci capiamo anche quando non siamo d’accordo»
Giorgia Meloni si prende il palco da remoto, ma lo occupa come fosse in prima fila. In video, alla festa per i 25 anni del quotidiano Libero, la premier si presenta con un sorriso scolpito e una raffica di slogan da comizio pre-elettorale. Niente domande, nessuna contraddizione, solo l’abbraccio amichevole dei padroni di casa Mario Sechi e Vittorio Feltri — con quest’ultimo che si dichiara “innamorato di lei” — mentre il pubblico annuisce, applaude e immortala il momento con selfie entusiasti. Si chiama comunicazione, ma assomiglia molto di più a una liturgia.
Meloni entra subito in partita sul fronte internazionale, dove piazza il suo endorsement al Caligola di Mar-a-Lago. «Trump è un leader coraggioso, schietto e determinato. Ci capiamo bene anche quando non siamo d’accordo», scandisce. L’ex presidente americano, che nel frattempo semina dazi, tensioni, minacce e sconquassi nei rapporti transatlantici, viene trattato come un fratello d’anima. «Difende i suoi interessi nazionali, io faccio lo stesso», aggiunge con orgoglio patriottico. Parole che suonano come un invito a nozze per gli ultrà del sovranismo, e come un ceffone diplomatico a chi, in Europa e persino negli Stati Uniti, continua a considerare Trump un rischio per la stabilità globale.
Il resto dell’intervento è una demolizione controllata, ma senza pietà, delle opposizioni. «Il referendum? Era un referendum sulle opposizioni e il risultato è chiaro. Noi andiamo avanti con il nostro lavoro», proclama, trasformando una sonora bocciatura referendaria in un trionfo del governo. La logica è semplice: se perdi, sei stupido. Se vinci, sei un eroe del popolo. E in ogni caso, la sinistra ha sempre torto. «Se la sinistra perde, allora c’è un problema di democrazia. Se vince, è un trionfo della democrazia. È sempre la stessa storia», ironizza la premier, facendo la caricatura di chi la critica — e portandosi a casa l’ennesimo applauso.
Ma il capolavoro arriva sul tema cittadinanza. Ridurre da dieci a cinque anni i tempi per diventare italiani? «Una sciocchezza», dice senza battere ciglio. «Solo chi vive nei salotti eleganti e frequenta club esclusivi può pensarlo. Denota un certo provincialismo». E giù bordate a chiunque osi anche solo mettere in discussione la legge attuale: «È un’ottima legge, la pensa così la stragrande maggioranza degli italiani. E io con loro». Il concetto è quello classico: popolo buono e saggio, élite cattiva e snob. Poco importa che la realtà sia ben più sfaccettata: la narrazione funziona, soprattutto quando è così ben oliata.
Non poteva mancare, in questa fiera dell’autocompiacimento, l’omaggio al fondatore. «Berlusconi sarebbe fiero di noi per il milione di posti di lavoro creati», afferma Meloni, riaprendo la cassetta degli slogan di vent’anni fa con la stessa disinvoltura con cui oggi rilancia il made in sovranismo. In fondo, la premier non perde mai di vista il suo obiettivo: mostrarsi rassicurante per i suoi e inaccessibile ai suoi avversari. Piaccia o meno, la strategia funziona.
E così, tra citazioni vintage, bastonate agli avversari e carezze a Trump, Meloni chiude il collegamento con un altro mattone nella costruzione della sua immagine: quella di una leader sola al comando, sicura di sé, allergica ai compromessi e con una missione precisa — trasformare ogni passerella in uno spot. Anche quando si tratta di celebrare un quotidiano.