Ilaria, l’ultima verità della madre di Mark: «L’ho aiutato a pulire il sangue»
Nors Manlapaz ha ammesso di essere entrata nella stanza e aver contribuito a ripulire l’appartamento dal sangue della ragazza. Ma la sua versione, come quella del figlio, non convince gli inquirenti. Le celle, le tracce ematiche e i tempi del delitto raccontano una storia diversa. E ora il sospetto è che l’intera famiglia sapesse, o peggio, abbia aiutato
«Ho sentito dei rumori, sono entrata nella sua stanza. E ho visto il sangue». Davanti agli inquirenti, Nors Manlapaz non ha pianto. Non ha gridato. Ha parlato con voce ferma per quattro ore, assistita da un interprete. Interrogata come testimone, è uscita da quella stanza con una nuova accusa: concorso in occultamento di cadavere. Il cadavere è quello di Ilaria Sula, ventidue anni, uccisa da suo figlio Mark la mattina del 26 marzo, in un appartamento seminterrato di via Homs, a Roma. Un omicidio che il ventitreenne ha confessato. Ma attorno al quale le ombre si infittiscono. Perché quella che doveva essere la ricostruzione definitiva, sembra più un’altra pagina di depistaggio familiare.
Non è un caso se la posizione della madre, inizialmente rimasta sullo sfondo, è finita ora al centro dell’indagine. A inchiodarla non sono solo le parole del figlio – «era con me, mi ha aiutato a pulire» – poi ritrattate davanti al giudice. Ma soprattutto le celle telefoniche, i dati, le tracce biologiche trovate in punti della casa dove solo chi ha partecipato attivamente poteva essere stato. Macchie di sangue, stracci sporchi, movimenti incompatibili con chi afferma di essersi limitata a “guardare”.
La dinamica, secondo gli investigatori, è ormai chiara: Ilaria è stata accoltellata a sorpresa da Mark mentre si trovava in casa sua. Forse dormiva, forse si era appena svegliata. Lui sostiene che stesse facendo colazione e che la furia sia esplosa leggendo i messaggi di un altro ragazzo sul telefono di lei. Ma il movente è irrilevante di fronte alla freddezza con cui il corpo è stato trattato: avvolto in un sacco nero, infilato in un trolley, caricato in auto e gettato in una discarica a decine di chilometri da Roma. Nessuno crede che un ragazzo mingherlino abbia potuto fare tutto da solo.
Ecco perché le attenzioni degli inquirenti si sono spostate sulla madre. Perché se davvero ha aiutato a ripulire il sangue, è difficile pensare che non sapesse. E se sapeva, la domanda è: fin dove si è spinta? C’è un altro elemento che pesa: il rancore familiare nei confronti della ragazza. Ilaria non era ben vista dalla madre del compagno. Una relazione poco compatibile con la tradizione filippina, troppe libertà, troppa autonomia. Durante la sua testimonianza iniziale, Nors aveva detto di conoscere appena Ilaria. Ma le prove dimostrano altro: la ragazza dormiva spesso lì, il rapporto era consolidato. Una bugia che oggi torna come un boomerang.
Fuori dall’inchiesta, almeno per ora, il padre di Mark, Rik Samson. La sua posizione è protetta dalla legge: anche se avesse aiutato il figlio, non può essere imputato per favoreggiamento trattandosi di un parente stretto. Resta però l’inquietudine di un contesto familiare che sembra aver fatto muro per coprire un delitto, e che oggi crolla pezzo dopo pezzo.
Anche i tempi sono sospetti. Secondo la versione di Mark, Ilaria sarebbe stata uccisa tra le 11 e le 14. Ma i dati telefonici della vittima suggeriscono che il telefono fosse ancora attivo la sera precedente, e agganci in celle incompatibili con la narrazione del giovane. È possibile che l’omicidio sia avvenuto la notte prima, e che la messa in scena sia servita solo a guadagnare ore preziose. Resta poi un grande interrogativo: il trasporto del corpo. Era solo Mark a spingere quel trolley in mezzo al bosco? Gli inquirenti non escludono che qualcuno lo abbia aiutato. Di sicuro, l’occultamento non è stato improvvisato.
Nel frattempo, Terni ha dato l’ultimo saluto a Ilaria. Tremila persone in chiesa, lutto cittadino, la madre svenuta per il dolore. «Era un angelo – ha detto il padre Flamur – e chi le ha fatto questo deve marcire in carcere». Il peso delle parole resta sospeso, come la domanda che nessuno ha ancora il coraggio di porre: e se non fosse stato solo un delitto di gelosia? Perché quando una ragazza finisce uccisa, e attorno a lei una famiglia intera resta in silenzio o mente, l’omicidio smette di essere “passionale”. Diventa sistemico. Diventa omertà. Diventa, per l’ennesima volta, una storia di complicità che si finge amore.