Iran, Khamenei abdica: il figlio Mojtaba sarà la nuova Guida suprema ma non tutti sono d'accordo
La tregua pilotata da Washington si trasforma in un’arma di propaganda per Teheran. Ma la Repubblica islamica è più fragile che mai. E nel silenzio si compie la successione dinastica al vertice del regime
La tregua annunciata a sorpresa tra Iran e Israele, mediata da Stati Uniti e Qatar, ha cambiato le carte in tavola in Medio Oriente. Dietro le quinte di un accordo che sembra offrire una via d’uscita, si cela in realtà un equilibrio precario che rischia di esplodere da un momento all’altro. Il regime iraniano ha accettato, obtorto collo, una cessazione delle ostilità che sul piano militare equivale a una resa. La “guerra dei 12 giorni” si chiude senza vincitori, ma con un chiaro sconfitto: Teheran.
Le ramificazioni dell’Iran in Libano, Siria, Iraq e Yemen sono state neutralizzate in un colpo solo. I bombardamenti israeliani hanno eliminato comandanti del Corpo delle guardie della rivoluzione, ufficiali dell’intelligence, scienziati nucleari, e colpito duramente le infrastrutture strategiche. L’asse della resistenza, il fiore all’occhiello della strategia regionale degli ayatollah, si è sgretolato sotto i missili.
A Teheran la retorica ufficiale parla di “vittoria contro l’entità sionista”, ma la realtà è ben diversa. La Guida suprema Ali Khamenei, 85 anni, ammalato e sempre più isolato, si è ritirato con la sua famiglia in un bunker fortificato. Da lì ha annunciato quello che sa di abdicazione: il potere passa a Mojtaba Khamenei, suo secondogenito, 56 anni, da anni considerato l’eminenza grigia del regime. Funzionario dei servizi segreti e ideologo rigorista, Mojtaba è inviso a molte anime dei pasdaran, soprattutto quelle più pragmatiche.
La nomina di Mojtaba non è stata accompagnata da alcun rito ufficiale. Nessuna cerimonia pubblica, nessun annuncio solenne: solo un silenzioso passaggio di consegne che rivela più debolezza che autorità. Eppure,
per la Repubblica islamica, la sopravvivenza passa da qui: fingere continuità dove c’è solo crisi. L’obiettivo è evitare che il crollo militare si trasformi in collasso interno.
Non è la prima volta che il regime si salva sull’orlo del baratro. Era già accaduto nel 1988, quando Khomeini dovette accettare la fine della guerra con l’Iraq dopo anni di carneficina. Allora, come oggi, la fine delle
ostilità servì da pretesto per una stretta repressiva feroce. Migliaia di oppositori politici vennero impiccati. E la storia sembra ripetersi.
Nelle ultime ore, il Corpo dei Guardiani ha effettuato oltre 530 arresti. Tra gli imprigionati ci sono giovani attivisti, docenti universitari, utenti dei social media. Alcuni sono già stati giustiziati. Le accuse sono le solite: spionaggio per Israele, propaganda contro lo Stato, “corruzione sulla terra”. È il ritorno del pugno di ferro. Un pugno che, però, non tutti all’interno del regime vogliono più accettare.
Crescono infatti i segnali di malcontento dentro le stesse forze armate. Alcuni reparti dell’IRGC vedono con sospetto l’ascesa dinastica di Mojtaba. Altri, più radicali, considerano la tregua con Israele una resa
inaccettabile. Si parla apertamente di golpe, di una svolta “alla pakistana”: una repubblica islamica senza guida suprema, governata da un consiglio militare. Un cambio di rotta che piacerebbe anche a molti pazari, i potenti commercianti dei bazar, sempre più critici verso gli ayatollah.
Ma c’è di più. Secondo fonti interne ai pasdaran, alcune correnti avrebbero già preso contatti con l’opposizione in esilio. E tra i nomi che circolano per un futuro “di transizione” spunta quello di Ciro Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo scià deposto nel 1979. Figura moderata, nazionalista, laica, ben vista a
Washington, Londra e perfino a Tel Aviv. Un suo ritorno – almeno simbolico – potrebbe rappresentare una soluzione di compromesso tra potere militare e legittimità popolare. L’Iran tornerebbe a essere una
monarchia costituzionale, con un primo ministro eletto e un re con poteri limitati. Fantapolitica? Forse. Ma in un paese dove tutto scricchiola, nulla può essere escluso.
Intanto, il regime continua a giocare la carta della propaganda. Ha indetto una parata militare nella centralissima piazza Enghelab di Teheran, la stessa dove nel 2017 era nata la protesta non violenta del Mercoledì Bianco, guidata da donne coraggiose come Vida Movahed. Una beffa simbolica: celebrare la “vittoria” proprio nel luogo che simboleggia la resistenza civile.
Ma è chiaro che la parata non basta a mascherare la crisi profonda. La tregua non è una pace. È solo una sospensione temporanea del collasso. L’Iran esce da questo conflitto più isolato, più vulnerabile, più
spaccato. E mentre il mondo guarda con cautela, all’interno si combatte una battaglia silenziosa per il futuro del paese. Un futuro che potrebbe segnare la fine della Repubblica islamica così come l’abbiamo conosciuta.