Israele porta dieci influencer a Gaza: selfie, frullati e propaganda social mentre alla stampa internazionale l’accesso resta vietato
La campagna “Rivelare la verità” sostituisce il lavoro dei giornalisti con video patinati e messaggi contro Onu e Hamas. Una narrazione che trasforma la Striscia in un set, screditando ancora di più il governo Netanyahu
Vogliono ribaltare la storia con le stories. A Gaza, dove da mesi la stampa internazionale chiede invano l’accesso libero, dieci influencer selezionati dal governo israeliano hanno improvvisamente potuto filmare, fotografare e pubblicare contenuti come se si trovassero in un set costruito per l’occasione. Il progetto si chiama “Rivelare la verità” e porta la firma del ministero per gli Affari della Diaspora di Israele. L’obiettivo dichiarato è contrastare la campagna di Hamas sulla fame, che punta a screditare Tel Aviv. L’obiettivo reale, invece, appare subito chiaro: sostituire le telecamere dei giornalisti con quelle dei creator, addomesticare la narrazione e diffonderla attraverso i social, con un linguaggio semplificato, virale e tagliente.
Gli ospiti selezionati non sono volti qualunque. C’è Xaviaer DuRousseau, conservatore americano che ama definirsi “il nipote preferito dello Zio Tom”, oltre un milione di follower, che si presenta a Gaza con giubbotto antiproiettile ed elmetto. «Se fossi Israele, non fornirei neanche un paio di calzini abbinati», dice in un video-selfie davanti a pacchi di cibo. Poi beve da una cannuccia e conclude: «Sono a Gaza, vedo solo cibo, acqua e opportunità. Ma Hamas non distribuisce, si mangia gli spaghetti di ramen e i leader prendono l’Ozempic». Il tono è quello del cabaret digitale, condito da slogan contro le Nazioni Unite: «Non finiscono mai il lavoro, esattamente come il vostro ex». Il video totalizza 445 mila visualizzazioni e oltre duemila repost.
Il copione è lo stesso per il giovane druso israeliano Marwan Jaber, 16 anni, 250 mila follower, che intitola il suo post “Ascoltate la verità da un arabo” e inquadra i pick-up dell’Onu urlando «vergognatevi, non state facendo niente». Ancora una volta il messaggio è netto: non esiste carestia, il problema non è Israele ma l’inefficienza delle organizzazioni internazionali.
A completare il cast ci sono Jeremy Abramson, ebreo americano seguito da quasi mezzo milione di utenti, e altri influencer israeliani. La regia è accurata: nessun campo profughi, nessuna famiglia ridotta alla fame, solo piazzali di transito e magazzini con pacchi alimentari pronti alla distribuzione. Il tutto confezionato con grafiche digitali, scritte a effetto e musica di sottofondo. Gaza ridotta a contenuto sponsorizzato.
Alla carovana si è unita, con un invito parallelo, anche Brooke Goldstein, avvocata di Miami, attivista del movimento #EndJewHatred e direttrice del Lawfare Project. A differenza degli altri, ha ricevuto l’invito dalla contestata Gaza Humanitarian Foundation, che ha gestito un rapido tour a Khan Yunis durante la distribuzione dei pacchi. Nei suoi video, ordinati e patinati, parla di «13 mila persone raggiunte con cibo e acqua» e di «media che diffondono notizie false». Non una parola sulle vittime, non un accenno alla carestia in corso.
Prima di lei, l’accesso era stato concesso solo a Fox News, il canale americano più vicino alle posizioni di Trump. Un dettaglio che sottolinea come la selezione degli osservatori non sia casuale ma funzionale a una precisa strategia comunicativa. A Gaza i giornalisti indipendenti non entrano, ma gli influencer con milioni di follower sì, e possono raccontare una realtà ribaltata in pochi secondi.
Il contrasto con i numeri è brutale. Sessantaduemila morti palestinesi, due milioni di persone intrappolate in una guerra senza fine, famiglie ridotte alla fame. Da 22 mesi i reporter internazionali chiedono di entrare e da 22 mesi ricevono un no. In compenso, la Striscia viene raccontata attraverso selfie in occhiali da sole, slogan semplicistici e accuse virali alle Nazioni Unite.
Il paradosso è evidente: mentre l’informazione tradizionale viene delegittimata, la comunicazione politica israeliana investe sui linguaggi digitali più immediati. Il racconto di Gaza diventa intrattenimento da feed, un’operazione di social-propaganda che punta a spostare l’opinione pubblica più velocemente di un’inchiesta giornalistica. Il risultato è una terra devastata che appare, nei filtri di TikTok e Instagram, come un luogo di abbondanza e opportunità.
Se non fosse per il contesto tragico, l’operazione farebbe ridere. Invece produce amarezza e rabbia. Non c’è spazio per il dubbio, non c’è confronto con i dati reali, non c’è la voce di chi a Gaza sopravvive tra macerie e fame. C’è solo la rappresentazione di comodo di un governo che sceglie dieci influencer al posto di centinaia di inviati internazionali. Una scelta che scredita ancora di più Israele agli occhi della comunità giornalistica e dell’opinione pubblica. Una “terra piena di cibo e opportunità” raccontata a colpi di stories, mentre fuori campo restano i cadaveri e la catastrofe umanitaria.