L’11 settembre, la ferita che ha cambiato la realtà e la narrazione della società
Non era solo un attentato: era la caduta di un’illusione. L’Occidente scopriva la propria fragilità e la fine di un senso di inviolabilità che si pensava acquisito
Era l’11 settembre del 2001. Le edizioni straordinarie dei telegiornali italiani interruppero la quotidianità: il TG1 e il TG2, seguiti dal TG4, videro i giornalisti irrompere nelle case degli italiani, per trasmettere le prime immagini che arrivavano in diretta dagli Stati Uniti. Lo schermo improvvisamente divenne finestra sull’incredulità: un aereo contro la Torre Nord, poi un secondo aereo contro la Torre Sud. Le voci concitate dei giornalisti, sospese tra cronaca e sgomento, scandivano l’inizio di una nuova era, un trauma collettivo che da New York si riversava istantaneamente nel mondo intero.
Non era solo un attentato: era la caduta di un’illusione. L’Occidente scopriva la propria fragilità e la fine di un senso di inviolabilità che si pensava acquisito. La letteratura, fedele custode delle grandi fratture storiche, raccolse subito il compito di interpretare. Don DeLillo, con "L’uomo che cade", tradusse il crollo delle torri nel crollo interiore degli individui. Jonathan Safran Foer, in "Molto forte", incredibilmente vicino, fece parlare la voce di un bambino che cerca di dare ordine all’assurdo. Paul Auster rielaborò la sensazione di smarrimento nei suoi toni sospesi tra realtà e metafisica. E la poesia, da Wisława Szymborska ad autori minori, trovò nelle immagini della polvere e del silenzio nuove metafore della caduta e della fine.
In Italia, la voce più forte e controversa fu quella di Oriana Fallaci, che con "La rabbia e l’orgoglio" (2001) trasformò il trauma dell’11 settembre in un grido furioso e personale. La sua scrittura, molto accesa, non si limitò a raccontare l’accaduto: divenne denuncia, sfida, invettiva. Oriana Fallaci si assunse il rischio di uno sguardo radicale, che a molti parve profetico e ad altri inaccettabile, ma che certamente colse l’onda di smarrimento e di rabbia che attraversava l’Europa e l’Italia in quei giorni. Il mondo cambiò irreversibilmente: non solo in politica, con guerre e nuove geografie della paura, ma anche nella percezione quotidiana. Aerei, stazioni, piazze smisero di essere luoghi innocenti. Nell’anima collettiva s’insinuò un’ansia nuova, che la letteratura seppe tradurre in memoria e testimonianza.
A distanza di più di vent’anni, la società ancora risente di quell’11 settembre. Le generazioni che non lo hanno vissuto direttamente ne respirano l’eco attraverso i racconti, i libri, le commemorazioni. È un trauma che continua a generare letteratura, che si sedimenta come memoria viva e come ammonimento. Forse è questo il lascito più struggente: averci ricordato che nulla è definitivo, che la solidità del nostro mondo può crollare in pochi minuti. E che solo la parola, fragile e tenace, può custodire l’assenza, raccontare la caduta, e tenere aperto il dialogo tra la ferita e la speranza.