La truffa a Banca Progetto, i soldi per il cinema dirottati altrove: operazioni fittizie e un sistema che si allarga
I 5 milioni destinati all’acquisto delle quote della Tunnel Produzioni sarebbero stati usati per finalità extra aziendali. È il nuovo filone dell’indagine sui finanziamenti concessi dall’istituto di credito: sono 51 gli indagati, c’è anche Antonio Scaramuzzino, re delle patatine Crik Crok
I fondi destinati all’acquisto delle quote di una casa di produzione cinematografica sarebbero stati “polverizzati attraverso bonifici verso altre società della rete per finalità extra aziendali”. È scritto negli atti dell’inchiesta e rappresenta l’ennesimo capitolo di un’indagine che, partendo da Banca Progetto, sta progressivamente allargando il perimetro delle sue implicazioni.
Dopo il mondo dell’imprenditoria, quello del calcio e persino la politica romana, ora entra in scena anche il settore del cinema, con l’operazione legata alla Tunnel Produzioni.
Un finanziamento da 5 milioni di euro che, secondo l’accusa, doveva servire per acquisire quote della società cinematografica e invece sarebbe stato trasformato in liquidità da far circolare all’interno di una rete di società per sostenere altre operazioni, coprire debiti e tenere in piedi un sistema che i pm definiscono preoccupante.
Il fascicolo complessivo conta 51 indagati. Tra questi figurano il “re delle patatine Crik Crok”, il calabrese Antonio Scaramuzzino, e l’imprenditore Simone Giacomini. Per la Procura di Roma - con il pm Mario Dovinola e il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini - non si tratterebbe di episodi isolati, ma di una struttura articolata. Parlano di “un fenomeno criminale di dimensioni allarmanti”, sia per la quantità di denaro movimentata, sia per la reiterazione dello schema che emerge nelle diverse vicende contestate.
Il meccanismo, secondo gli inquirenti, era sempre lo stesso: alcune società romane riconducibili a determinati gruppi avrebbero simulato aumenti di capitale, creando così l’apparenza di una solidità finanziaria in crescita. Poco dopo, queste stesse società avrebbero ottenuto finanziamenti da Banca Progetto garantiti dal Medio Credito Centrale. In altri termini, aumenti fittizi per ottenere soldi veri. E soldi coperti da garanzia pubblica.
In questo contesto - ricostruisce una nota dell’Agi - si inserisce la parte legata al cinema. Gli indagati avrebbero presentato alla banca un progetto formalmente ineccepibile: acquisire quote della Tunnel Produzioni, rafforzare la presenza nel settore dell’audiovisivo, investire in un comparto che vive di capitali ma che, allo stesso tempo, può generare importanti ritorni economici. La banca avrebbe accettato e concesso il finanziamento. Ma, sempre secondo l’accusa, da quel momento la traiettoria del denaro avrebbe cambiato direzione.
I 5 milioni, una volta ottenuti, non sarebbero stati impiegati per l’operazione dichiarata. Al contrario, sarebbero stati distribuiti tramite una serie di bonifici fra società della stessa rete imprenditoriale. Una frammentazione di somme che, nei documenti della Procura, viene descritta come uno “svuotamento” del finanziamento rispetto allo scopo originario, cioè l’investimento industriale.
Il denaro, stando a quanto emerge dagli atti, sarebbe stato utilizzato in parte per coprire debiti, in parte per sostenere altre operazioni e, in alcuni casi, sarebbe stato fatto “rimbalzare” su conti differenti per alimentare quello che gli inquirenti definiscono un sistema a “catena di Sant’Antonio”. Un circolo vizioso che avrebbe avuto l’obiettivo principale di evitare che scattassero segnalazioni di sofferenza bancaria, perché un allarme su una singola pratica avrebbe potuto bloccare l’intero meccanismo dei finanziamenti in corso.
Naturalmente, ogni spostamento di denaro doveva essere formalmente giustificato. E qui gli atti raccontano di una serie di fatture considerate fittizie dagli inquirenti: “prestazioni inesistenti” e causali generiche, ma eleganti nella forma. Compensi per “consulenza tecnica per produzioni televisive”, “acconto acquisto diritti”, “noleggio attrezzature cinematografiche”. Una documentazione perfettamente inserita nel lessico del settore audiovisivo, ma che, secondo la Procura, serviva soltanto a costruire una copertura amministrativa. Nessuna attività reale, sostengono i pm. Solo uno schermo.
Questo filone, che coinvolge la Tunnel Produzioni, arriva dopo altri due capitoli già emersi dall’inchiesta. Il primo riguarda il cuore della vicenda: 120 milioni di euro concessi a diverse società con modalità ritenute illecite. Il secondo riguarda i fondi che sarebbero finiti nel calcio, in club come Ancona, Ternana e Triestina, pur essendo soldi destinati, nelle intenzioni, al sostegno di piccole e medie imprese.
Nel mezzo, un capitolo politico che ha fatto discutere: alcune iniziative - secondo l’accusa - per screditare pubblicamente l’assessore allo Sport e ai Grandi Eventi del Comune di Roma, Alessandro Onorato, “colpevole” di aver stimolato controlli che portarono alla chiusura dello stadio dell’Ostiamare. Anche questo, per gli inquirenti, un tassello della stessa rete.
L’elemento che colpisce - ed è ciò che la Procura mette in evidenza - è la serialità del modello. Non un singolo raggiro, ma una struttura che avrebbe sfruttato la garanzia pubblica del Medio Credito Centrale per ottenere denaro in grandi quantità e utilizzarlo per finalità diverse da quelle dichiarate. E la dimensione pubblica è il dettaglio che trasforma la vicenda da semplice operazione bancaria opaca a questione di forte rilevanza generale.
A questo punto l’indagine è ancora in corso e ogni posizione dovrà essere valutata in sede giudiziaria. Gli indagati, come sempre accade in questa fase, restano tali e non colpevoli fino a sentenza definitiva. Ma il quadro che emerge dagli atti, e che la magistratura continua a scandagliare, racconta di un presunto sistema che non solo avrebbe drenato risorse ingenti, ma lo avrebbe fatto presentandosi sotto la veste rassicurante dell’impresa, dell’investimento culturale, dello sviluppo economico.
Il cinema, in questa storia, non è il protagonista artistico, ma uno strumento finanziario. E questo è forse l’aspetto più inquietante nel racconto degli inquirenti: un mondo che normalmente vive di idee, progetti, lavoro creativo, trasformato in fronte operativo di una rete di fondi spostati, frazionati, riciclati dentro conti e bilanci.
Ora resta da capire fino a che punto il sistema abbia agito, chi lo abbia realmente governato e quante altre operazioni simili potrebbero emergere. Perché, se finora ogni nuovo capitolo ha aperto un ulteriore livello di complessità, è chiaro che la linea d’indagine non è affatto esaurita. E che l’immagine di un vaso di Pandora, usata da più parti, rischia di non essere solo una metafora giornalistica.