L’arto amputato, il sangue e la frase choc: «È morto, dove lo butto?» Il racconto del bracciante che accusa Antonello Lovato
L’imprenditore agricolo di Latina che avrebbe lasciato morire dissanguato il bracciante indiano Satnam Singh, è imputato per omicidio volontario con dolo eventuale. Il medico legale: «Un comportamento diverso avrebbe potuto salvarlo»
«È morto, dove lo butto?». Sarebbe questa la frase – agghiacciante e disumana – che Antonello Lovato, imprenditore agricolo di Latina, avrebbe pronunciato subito dopo l’incidente costato la vita a Satnam Singh, il bracciante indiano morto dissanguato dopo aver perso un arto in un macchinario agricolo. A riferirla in aula, davanti alla Corte d’Assise di Latina, è stato un testimone, un altro lavoratore agricolo chiamato a fare da traduttore per un connazionale presente sul posto.
Il racconto è di quelli che tolgono il respiro. «Mi disse che era successo un incidente – ha riferito l’uomo – e che il suo collega si era incastrato in una macchina. Gli dissi di stare calmo e di chiamare un’ambulanza. Ma lui continuava a dire che era morto». Quando il testimone chiese di parlare con il datore di lavoro, racconta di aver sentito la voce di Lovato dall’altra parte della linea: «Gli dissi di chiamare i soccorsi, ma lui rispose: “È morto, aiutami, dove lo butto?”. Io insistevo, ma sentivo che aveva paura. Si capiva dal tono».
Era il 17 giugno 2024, una giornata come tante nelle campagne di Borgo Santa Maria, nel cuore dell’Agro pontino. Satnam Singh, 31 anni, originario del Punjab, lavorava in nero in un’azienda agricola della zona. Quel giorno il suo braccio rimase intrappolato in una macchina impastatrice. Il macchinario gli tranciò di netto l’arto. A quel punto, invece di chiamare i soccorsi, il datore di lavoro – secondo l’accusa – lo avrebbe caricato su un furgone e abbandonato davanti casa, dove viveva con la moglie. Lì, tra la paura e il silenzio, Satnam morì dissanguato. Nessuna ambulanza, nessun tentativo di salvataggio. Una corsa che, se fosse avvenuta, avrebbe potuto cambiare tutto.
Il processo in corso a Latina punta a fare luce su quei minuti di orrore. Antonello Lovato è imputato per omicidio volontario con dolo eventuale. La sua difesa sostiene che l’uomo fosse sotto shock e che abbia agito in stato di confusione, spaventato dalle conseguenze legate al lavoro nero e all’uso di macchinari non a norma. Ma la Procura non ha dubbi: la mancata chiamata ai soccorsi e l’abbandono del corpo ferito sarebbero state scelte consapevoli, finalizzate a evitare controlli e denunce.
A rendere ancora più pesante il quadro, le parole pronunciate in aula dal medico legale Maria Cristina Setacci, che ha eseguito l’autopsia sul corpo di Satnam. «Un comportamento alternativo avrebbe potuto salvarlo – ha spiegato –. La causa della morte è stata uno shock emorragico dovuto all’amputazione del braccio. Se fosse stato trasportato immediatamente in ospedale o se fosse stata applicata una cinghia a mo’ di laccio emostatico, le probabilità di sopravvivenza sarebbero state alte».
Parole semplici ma devastanti, che ribaltano la prospettiva del caso: quella vita si sarebbe potuta salvare. Bastava un gesto. Una telefonata. Un minimo di pietà. Secondo gli investigatori, Lovato avrebbe caricato il corpo di Satnam su un furgone aziendale e, invece di condurlo in ospedale, lo avrebbe lasciato a terra davanti alla sua abitazione. Un gesto che, nella ricostruzione della Procura, mostra «disprezzo per la vita umana» e «volontà di occultare la verità».
Il testimone sentito in aula ha ribadito di non conoscere né Satnam né il suo datore di lavoro. «Io non avevo motivo di inventare nulla – ha detto –. Mi hanno solo chiamato per tradurre e per chiedere di chiamare un’ambulanza. Ma lui continuava a dire che era morto». Il racconto ha gelato l’aula. Anche perché la frase attribuita a Lovato – «È morto, dove lo butto?» – è diventata simbolo di una disumanità che supera il confine della paura. Una frase che, anche se riferita al condizionale, pesa come una condanna morale.
Il caso di Satnam Singh ha scosso l’opinione pubblica e riaperto il dibattito sullo sfruttamento dei braccianti stranieri nelle campagne italiane. Il giovane indiano era arrivato in Italia in cerca di un futuro, ma aveva trovato solo fatica, silenzio e precarietà. Lavorava per pochi euro al giorno, senza contratto, senza sicurezza, senza voce. Dopo la sua morte, la moglie ha chiesto giustizia e il governo ha promesso controlli più severi. Ma il processo di Latina mostra quanto sia fragile la distanza tra la disperazione e la crudeltà. Il pubblico ministero ha chiesto nuove testimonianze e l’acquisizione dei tabulati telefonici per ricostruire minuto per minuto quanto accaduto tra l’incidente e l’abbandono del corpo.
La prossima udienza è fissata per il 2 dicembre, quando verranno ascoltati altri braccianti che lavoravano nelle aziende della zona. Nel frattempo, il nome di Satnam Singh è diventato simbolo di un’Italia che non può più voltarsi dall’altra parte. Un uomo morto tra i campi, lasciato solo come un rifiuto, mentre qualcuno – stando alle testimonianze – avrebbe cercato un posto dove “buttarlo”. Parole che gelano più di una sentenza. Perché raccontano non solo la fine di una vita, ma l’assenza di umanità che la circonda.
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