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19/11/2025 ore 22.56
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L’avatar della nonna morta che ti legge la favola: l’app americana che resuscita i defunti divide gli Usa (e non solo)

Un software ricrea la voce e il volto dei propri cari scomparsi grazie all’intelligenza artificiale: bastano tre minuti di video. Ma sui social esplode la rivolta, tra accuse di “speculare sul dolore” e indignazione: «È un’idea disumana»

di Luca Arnaù

Negli Stati Uniti un’app appena nata sta provocando uno dei dibattiti più accesi dell’era dell’intelligenza artificiale. Si chiama 2Wai, ed è un software capace di ricreare un avatar digitale dei propri defunti: un doppio iperrealistico, con voce, espressioni, gestualità e capacità di risposta modellate su tre minuti di filmato della persona scomparsa. L’obiettivo dichiarato è permettere ai vivi di “continuare a dialogare” con chi non c’è più. Quello che molti vedono, invece, è un gigantesco cortocircuito emotivo ed etico.

Lo spot che ha acceso la miccia lo ha postato su X Calum Worthy, ex volto Disney – era Dez Wade nella serie Austin & Ally – oggi co-fondatore della startup. «Stiamo costruendo un archivio vivente dell’umanità, una storia alla volta», dice nel lancio del video. Parole che, nelle intenzioni, vorrebbero evocare un’idea di memoria collettiva. Nella percezione di molti utenti, evocano invece tutt’altro: la sensazione disturbante di trovarsi davanti a un’app che promette un contatto impossibile, e che rischia di sfruttare il lutto come mercato.

Lo spot è costruito come un mini-film. Una donna incinta parla con l’avatar della madre morta, ricreato in digitale. Poi il racconto salta avanti negli anni: la “nonna virtuale” legge la favola al nipote appena nato, poi discute con lui da bambino, fino all’ultima scena in cui il ragazzo – ormai adulto – le annuncia, mostrandole un’ecografia, che sta per diventare padre. Un legame che attraversa il tempo e supera la morte. Ma, per molti, un confine etico oltrepassato con leggerezza.

La sequenza finale svela la dinamica reale: flashback, la madre è ancora viva e la figlia registra tre minuti di video per darle un futuro digitale. Lo slogan è lo stesso usato per la campagna: «Con 2Wai, tre minuti possono durare per sempre». Ed è proprio quel “per sempre” che ha fatto tremare più di uno spettatore.

Tecnicamente, l’app funziona come molti sistemi di generazione avanzata: acquisisce il volto, la voce e il modo di parlare del soggetto, li trasforma in un modello computazionale e li restituisce sotto forma di interlocutore attivo. L’utente può parlarci, inviare chat, chiedere consigli, rivivere conversazioni. L’azienda assicura che non si tratta di copie coscienti, ma repliche che imitano “il modo di essere” della persona registrata. Un confine sottile, soprattutto nella percezione di chi vive un lutto.

Non a caso, la reazione dei social è stata quasi immediatamente feroce. «Un’idea demoniaca», scrive un utente su X. «Disumanizzante e disonesta», rincara un altro. C’è chi parla apertamente di «profanazione emotiva», chi sostiene che si tratti di un «servizio pericoloso che sfrutta fragilità umane profondissime», e chi giura che se mai qualcuno provasse a ricrearlo in digitale «lo maledirebbe per sempre». Qualcuno chiede addirittura che Worthy venga «messo in prigione».

Molte critiche puntano al rischio più evidente: alimentare un lutto patologico, trasformare l’elaborazione della perdita in una dipendenza dalla copia digitale, confondere memoria e simulazione. Un tema già affrontato in forma distopica nel 2013 dalla serie Black Mirror, nell’episodio “Be Right Back”, citato da quasi tutti i commentatori nelle ultime ore. Lì, una donna in lutto ricorre a un’intelligenza artificiale per ricreare il compagno morto, finendo risucchiata in una spirale di autoinganno che somiglia molto al timore espresso dal pubblico reale.

La startup, invece, insiste sulla narrazione opposta: «Non ricreiamo persone – sostiene Worthy – ma ricostruiamo storie». E infatti l’app non permette solo di far rivivere parenti: nel catalogo compaiono anche avatar di personaggi storici, da William Shakespeare a Enrico VIII, con cui gli utenti possono dialogare come fossero ospiti digitali in un museo interattivo. Una funzione che l’azienda presenta come educativa, ma che non basta a stemperare il clima di sospetto.

L’app è scaricabile gratuitamente, ma gli avatar “premium” – più fedeli, più complessi, più interattivi – sono a pagamento. E questo è un altro punto dolente: per molti critici, 2Wai «monetizza il dolore», trasforma il lutto in business, introduce una tariffa per parlare con la copia di chi non c’è più. Una questione che tocca corde profonde e che va ben oltre il gadget tecnologico.

Sul piano regolatorio, poi, il tema è un campo minato. I diritti di immagine post-mortem, la gestione dei dati dei defunti, il consenso informato relativo alla creazione di un avatar dopo la morte: tutti aspetti che negli Stati Uniti sono già oggetto di contenziosi e dibattiti, e che questa app rischia di portare a un nuovo livello di complessità.

Per i sostenitori del progetto, invece, 2Wai non fa altro che replicare un’esigenza antica: conservare, ricordare, tenere vicino chi è stato importante. Invece della foto in bianco e nero sul mobile, dicono, arriva un’intelligenza artificiale capace di restituire una voce, un sorriso, una frase familiare. Una forma di “memoria animata” che, nelle intenzioni, dovrebbe essere un conforto.

In realtà, più che una risposta, la app ha aperto un fronte sospeso tra etica, tecnologia ed emozioni. È il primo esperimento di larga scala che porta l’intelligenza artificiale dentro lo spazio più intimo e fragile della vita umana: la morte. E dimostra, una volta di più, che ogni progresso digitale, quando sfiora le corde dell’esistenza, può essere rivoluzionario. Ma anche profondamente perturbante.