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01/03/2025 ore 12.49
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Lo scontro tra Trump e Zelensky diventa spettacolo mentre la politica resta fuori dalla porta

Non sorprende il comportamento del presidente Usa durante l’incontro di ieri con il leader ucraino: l’ennesima conferma della volontà di isolare sempre più gli Stati Uniti secondo il diktat “America first”

di Salvatore Stanizzi

Esiste ancora gente che, otto anni dopo, si sorprende di Donald Trump. Il mandato elettorale pieno che Trump ha ricevuto faceva intendere, di per sé, che sull’Ucraina sarebbe finita in questo modo.
Alla fine, fosse stato un altro presidente a dire le stesse cose ma con un tono più diplomatico, nessun polverone si sarebbe alzato: sorprendersi di Donald Trump è completamente inutile. Lui è sempre stato così e ieri non ha fatto altro che confermarlo.

E, a dimostrarvelo, è la compattezza con la quale tutto il suo Gabinetto si è schierato con lui: perfino chi, come il segretario di Stato Marco Rubio, ha avuto per tutta la durata dell’incontro una comunicazione non verbale totalmente in disaccordo con quanto stava accadendo ha poi utilizzato parole al miele per il suo presidente.

Riportare davanti ad ogni cosa “America first”, altro non è che un chiaro e lampante segnale di cosa vuole davvero Trump: isolare gli Stati Uniti più di quanto siano già, di per sé, opportunisti. Trump difende gli Stati Uniti e continuerà a farlo secondo il suo punto di vista di cui, ancora una volta, non c’è da sorprendersi.

Esiste un esempio lampante che può essere utilizzato per spiegare quanto accaduto ieri: il 20 marzo 2003, George W. Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Colin Powell e Paul Wolfowitz dopo un anno e mezzo di bugie fanno partire l’operazione denominata “Iraqi Freedom”, ossia l’invasione dell’Iraq.

A distanza di anni possiamo dirlo: tutto basato sul niente. Fonti false, fatti non verificati e decontestualizzati, niente permesso Onu. Il momento più basso della presidenza Bush.

Powell stesso ammetterà che quanto fatto fu «una macchia» della sua carriera. Rispondere all’attacco era giusto, farlo inventandosi i pretesti e violando ogni dichiarazione sui diritti umani non sarà mai accettabile.

Perché questo esempio? Perché Powell ai tempi, da segretario di Stato, fu obbligato a mentire davanti la sessione plenaria delle Nazioni Unite, per poi ritirarsi quasi definitivamente dalla scena politica. L’associazione con Rubio diviene quasi spontanea e necessaria per capire la differenza del momento e, con tutta probabilità, delle conseguenze politiche e personali.

È apparso lampante a tutti che dal 20 gennaio, Zelensky non può proseguire questa battaglia con gli Stati Uniti, perlomeno finché l’inquilino sarà Donald Trump. E avere JD Vance come candidato in pectore alla presidenza nel 2028 non aiuta: oltre ad essere un bravo autore - bestseller - è sembrato piuttosto lampante che il suo intervento di ieri fosse studiato a tavolino con modi e tempi perfetti. Se vogliamo essere, però, seri, Vance è da considerarsi isolazionista, molto di più rispetto a quanto sia potuto sembrare e infinitamente più opportunista di Trump stesso.

Di niente altro che uno spettacolo televisivo piuttosto di basso livello (leggere le dichiarazioni di Trump alla fine dell’incontro), occorre concentrarsi su una parte dell’equazione poco dibattuta: sono mesi che l’immagine degli Stati Uniti - avveniva anche con Biden per altri motivi - viene disintegrata.

Sull’aspetto televisivo basta solo fare una chiosa per capire di cosa parliamo: sia la battuta di Trump che la domanda di un giornalista sul perché Zelensky non vestisse con un abito ma con altri indumenti: è stata grande televisione ma non grande politica.

Vogliamo fare un altro esempio? Durante la Seconda Guerra Mondiale, Winston Churchill si recò in visita ufficiale alla Casa Bianca vestendo una tuta. Secondo voi Franklin Delano Roosevelt fece battute sullo stile del primo ministro inglese in pieno conflitto?

La riverenza che, fino a pochi anni fa, il mondo aveva nei confronti del ruolo e dell’istituzione del presidente degli Stati Uniti è svanita in poco tempo.

A giovarne sono i loro nemici storici, quelli che hanno sempre cercato di rappresentare il comandante in capo come un essere e una istituzione da demonizzare.

Nel giro di poco più di un mese dal 20 gennaio, sia in Medio Oriente che in Ucraina abbiamo avuto prova di quello che è l’interesse americano.

Semmai, la domanda che pochi si stanno ponendo in questo momento è la seguente: a Taiwan come hanno preso quanto accaduto ieri?

Oggi non è in gioco l’Ucraina e basta. È la parola e la promessa degli Stati Uniti di aiutare qualcuno.

In questo senso, il danno più grande sarà probabilmente quello alla credibilità degli Stati Uniti e all'autorità morale della presidenza. Ma c'è un'altra parola per quello che sta accadendo. E quella parola è omertà. E il contesto che evoca sembra incredibilmente rilevante per gli sviluppi di cui stiamo parlando e che ci accingiamo a vivere.

Ennio Flaiano direbbe che «il momento è grave ma non è serio», eppure, grave o serio che sia, non si può risolvere con una citazione.

Ciò che sta accadendo, richiama un assenza di politica. Da un lato, non si può costringere l’amministrazione americana a fare qualcosa che non vuole, dall’altro, non si può restare inermi e aggrapparsi con la sola forza del coraggio ad una resistenza contro una potenza infinitamente più forte.

Se due linee rette non riescono ad incontrarsi da sole, occorre dunque cercare, quantomeno, che possano toccarsi da qualche parte, in qualche punto ancora forse inesplorato. Per farlo, serve la forza della politica. Perché, appare piuttosto evidente che non si può provare a ragionare con una tigre quando questa ha la tua testa nella sua bocca.

Eppure, oggi come oggi, sembrano risuonare come monito le parole di De Gaulle: «La politica è troppo seria per essere lasciata ai politici». Ieri la politica si è trasformata in show televisivo e questo comporta solamente un accentuarsi delle distanze con buona felicità dei rispettivi nemici pronti a gongolare in queste situazioni.

Trump ha ragione quando afferma che Zelensky non può vincere questa guerra da solo e Zelensky ha dimostrato di avere, in questi anni, coraggio. Un uomo che non è scappato dalle sue responsabilità come presidente e che ha guidato una resistenza stoica contro l’aggressione subita. Ora si vuole una pace. Per averla, però, le concessioni devono essere reciproche e non unilaterali. E per farle esistere, per far sì che le due rette si tocchino, che quel toccarsi unisca due azioni in una, occorre che la politica torni a fare la politica.