Meloni e il paradosso del potere: guida l’Italia, ma si racconta ancora come una vittima (e isola il Paese)
La premier continua a giocare la carta dell’outsider contro il “sistema” anche mentre governa. La strategia però ha molti rischi tra conflitti interni, scelte contraddittorie e l’equilibrio precario dovuto ai sabotaggi di Salvini
Nel suo discorso per la fiducia, Giorgia Meloni si definì un’underdog: «Sono la prima donna incaricata come presidente del Consiglio dei ministri nella storia d’Italia, provengo da un’area culturale che è stata spesso confinata ai margini della Repubblica, e non sono certo arrivata fin qui fra le braccia di un contesto familiare e di amicizie influenti. Rappresento ciò che gli inglesi chiamerebbero l’underdog. Lo sfavorito, per semplificare, che per affermarsi deve stravolgere tutti i pronostici». (Giorgia Meloni, 25 ottobre 2022, dall'intervento alla Camera dei deputati per la fiducia al suo governo.
La Meloni si racconta come una personalità sottovalutata, cresciuta ai margini, pronta a prendersi la rivincita contro un sistema che l’aveva ignorata. A distanza di due anni e mezzo da quell’intervento, la premier italiana continua a giocare su un doppio registro narrativo: da un lato la leader che sfida le élite, dall’altro una figura che si ritrae nella sindrome di Calimero, convinta che l’Italia – e con essa il suo governo – sia vittima di pregiudizi, esclusioni e cospirazioni internazionali. Due retoriche apparentemente inconciliabili, ma entrambe funzionali a una strategia di comunicazione che cerca costantemente di costruire consenso attraverso l’opposizione al “sistema”, anche quando lo si governa.
Meloni è una politica di lungo corso, che ha bruciato le tappe con velocità e determinazione: consigliere provinciale a 23 anni, deputato e vicepresidente della Camera a 29, ministro a 31, presidente del Consiglio a 45. Tutt’altro che marginale. Eppure insiste nel descriversi come outsider, come vittima, come «l’unica» capace di difendere la nazione da nemici esterni e interni. Una retorica populista che ha segnato tutto il suo percorso e che oggi si riflette nella postura assunta nei confronti dell’Unione Europea e dei partner internazionali.
Il caso più emblematico è stato il vertice di Kiev con Macron, Sunak e Tusk, al quale Meloni ha preferito non partecipare in presenza, derubricandolo a semplice operazione mediatica. Una decisione che ha avuto conseguenze simboliche e politiche: l’Italia, da Paese fondatore dell’Ue, è parsa defilata, riluttante, se non addirittura ostile, rispetto all’idea di un’Europa protagonista sul fronte ucraino.
La Germania, che nel frattempo rilancia un’Unione a più velocità con nuovi “partner strategici”, ha inizialmente escluso l’Italia dal gruppo ristretto dei Paesi con cui costruire una politica di difesa comune. Una decisione parzialmente corretta solo dopo intensi negoziati diplomatici e un colloquio diretto tra Meloni e il cancelliere Scholz. Ma il danno d’immagine era fatto: l’Italia veniva percepita come inaffidabile, poco coerente, sempre in bilico tra rivendicazioni sovraniste e necessità di alleanze strutturali.
La frattura con la Francia è diventata ormai sistemica. Le provocazioni verbali, gli attacchi personali e le polemiche orchestrate dai vertici di Fratelli d’Italia contro Emmanuel Macron hanno prodotto un effetto boomerang: Parigi guarda ad altri interlocutori, a cominciare dalla Spagna di Pedro Sánchez e dalla Polonia di Donald Tusk, che ha ricostruito la sua credibilità europeista in pochi mesi. L’asse franco-tedesco, pur in difficoltà, sta tracciando nuove traiettorie, e l’Italia ne resta ai margini, spettatrice più che protagonista.
Nel mezzo, un’Italia che sembra perdere posizioni non per oggettive debolezze – che pure esistono – ma per scelte politiche miopi e contraddittorie. L’argomento, usato da Meloni, che l’Italia non parteciperà mai a missioni militari se non sotto egida Onu, è un paravento: a livello internazionale tutti sanno che un intervento autorizzato dal Consiglio di Sicurezza è irrealistico finché la Russia avrà potere di veto. Il risultato è una posizione sterile, che lascia campo libero ad altri attori, proprio mentre l’Europa discute il suo futuro strategico.
A indebolire ulteriormente l’azione del governo è l’instabilità interna della maggioranza. Matteo Salvini, storico alleato e oggi principale concorrente, mina ogni giorno l’autorità della premier. Dalle esternazioni sull’Ucraina al flirt con Marine Le Pen e Viktor Orbán, il leader leghista si propone come il vero custode dell’anima sovranista, in costante contrapposizione con la linea di Fratelli d’Italia. La Lega punta a recuperare consensi erodendo il bacino elettorale meloniano, e in questo schema non esita a sabotare ogni tentativo di Meloni di accreditarsi come leader affidabile in Europa.
Il risultato è un esecutivo perennemente in equilibrio precario, logorato da contraddizioni ideologiche e rivalità personali, che si riflettono sulla credibilità dell’Italia a livello internazionale.
In un momento storico in cui l’Unione Europea si sta ridefinendo, con nuove alleanze, politiche di difesa comune, piani per l’autonomia energetica e industriale, l’Italia non può permettersi una guida esitante, più preoccupata della narrazione interna che delle sfide globali. Il rischio, sempre più concreto, è che l’Italia venga marginalizzata nelle scelte strategiche che contano. Che resti indietro nei dossier decisivi: difesa, transizione energetica, politica industriale, allargamento a Est.
La Meloni si muove in una tela complessa, ma è lei oggi a occupare il centro del potere. E in politica, chi occupa il potere non può continuare a raccontarsi come vittima. I leader decidono, costruiscono alleanze, affrontano conflitti. Non si limitano a cercare capri espiatori.
La sindrome dell’underdog può conquistare voti. Ma senza visione, senza alleanze, senza coerenza, non può guidare un Paese in mezzo alla tempesta.