Octav, l’ultimo respiro tra le pietre di Roma: la vita spezzata dell’operaio che sognava un futuro in Italia
La corsa dei soccorritori, la moglie che sussurra il suo nome, la città ferma davanti a un crollo nel cuore dei Fori. Un altro lavoratore che non tornerà più a casa. Aveva 66 anni, era arrivato dalla Romania e da anni lavorava in Italia per costruire – e ricostruire – bellezza
«Respira ancora? Si riprenderà? Per favore, ditemi che tornerà a casa». La voce di Mariana, spezzata e ostinata, rimbalza nei corridoi bianchi del Policlinico Umberto I quando ormai è notte fonda. Sono domande che ogni persona che ama ha pronunciato almeno una volta nella vita. Ma qui, in questa notte romana, la risposta non arriva. Non subito, almeno. Poi arriva, e strappa via tutto.
Octav Stroici non ce l’ha fatta. È morto dopo aver combattuto per ore, aggrappato a una speranza che oscillava come i detriti sospesi sopra di lui. Un filo sottilissimo che ha resistito fino a poco dopo la mezzanotte. Poi il cuore, stremato, ha scelto il silenzio.
Octav aveva 66 anni, era nato a Suceava, nel nord della Romania. In Italia aveva trovato una nuova casa, un nuovo futuro, una famiglia da proteggere. Viveva a Monterotondo, alle porte di Roma, insieme alla moglie Mariana. Lavorava duro, da operaio edile, con il mestiere nelle braccia e l’umiltà negli occhi. Aveva accettato quell’appalto delicato: restaurare la Torre dei Conti, un gioiello medievale dimenticato, ferito dal tempo. Lo faceva per garantire un domani ai suoi cari. Gli mancava un anno alla pensione.
Morto l’operaio rimasto sotto le macerie dopo il crollo della Torre dei conti ai Fori imperiali: il 66enne deceduto in ospedaleLunedì mattina, alle 11.30, la torre ha ceduto di colpo. Un boato secco, come un tuono, e una nube di polvere bianca che ha inghiottito la storia e quattro uomini. Tre di loro verranno salvati. Octav no. Rimane giù, schiacciato in un varco stretto, un cunicolo di ferro e pietra. Ma respira. Sente. Parla. «Aiutatemi… non resisto più… fate presto». Parole sussurrate dall’oscurità, che arrivano come coltellate ai soccorritori che scavano senza sosta, anche a mani nude, sfidando l’instabilità del monumento. Basta un movimento sbagliato e tutto crolla.
Là fuori, nel cuore di Roma, la vita continua. I turisti fotografano i Fori, i bus attraversano via dei Fori Imperiali, i caffè servono cappuccini. Eppure tutto è sospeso: la città trattiene il respiro per un uomo che forse non ha mai visto Colosseo o Fontana di Trevi da turista, ma che a Roma stava restituendo bellezza. Una bellezza che lo ha tradito.
Mariana arriva di corsa nel luogo del crollo. Ha gli occhi lucidi, le mani giunte. Accanto a lei c’è la figlia Alina, arrivata dalla Puglia. Piangono e pregano guardando la gru, guardando l’aria, immaginando di sentire la voce di Octav sotto la pietra. Accanto a loro l’ambasciatrice romena Gabriella Dancau, i funzionari del consolato. Nessuno vuole lasciarla sola. La speranza è fragile, ma resiste.
Quando i vigili del fuoco riescono finalmente a portarlo fuori, dopo undici ore, cala un silenzio irreale. Poi un applauso. Non di vittoria, ma di gratitudine per quegli uomini che hanno sfidato l’impossibile. Octav è immobile. Il coltello del destino – non quello di un aggressore, ma del lavoro, della fatalità, della storia – lo ha trafitto lentamente attraverso polmone e costole. Gli fanno subito un massaggio cardiaco. Lo caricano sull’ambulanza. Sirene che fischiano tra le rovine. Roma che si stringe.
Mariana corre. Non piange più. «L’ho visto resuscitare», dirà poi. «Lui lotta». La fede di chi ama fino all’ultimo grammo. Ma quando i neon del reparto diventano l’unica luce, la verità arriva. Pacata, dolorosa, definitiva. Octav non tornerà a casa. Non siederà più sul divano accanto a Mariana. Non chiamerà la figlia per chiederle come sta. Non sussurrerà «ancora un anno e poi basta, ci riposiamo».
Morto lavorando per difendere il nostro patrimonio. Morto mentre restituiva vita a un monumento antico. Morto in una città che mille volte si è rialzata, ma che stavolta deve fermarsi e guardare. Oggi Roma piange un operaio. Uno come tanti. Ma indispensabile. Uno che non conosciamo, e che pure ci appartiene. Perché la storia che raccontano le pietre è scritta dalle mani di uomini come lui. E tra le domande che restano sospese nel cielo di questa città eterna, ce n’è una che Mariana non ha ancora pronunciato, ma che vibra nell’aria come il rumore dei generatori nella notte:
Chi sarà adesso il mio domani, se il mio ieri è rimasto sotto quelle macerie?
Roma oggi dovrebbe rispondere. Non con parole. Con memoria. E rispetto.