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13/11/2025 ore 21.34
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Papa Leone XIV, il pontefice “in missione per conto di Dio”: ecco il documentario che racconta il ragazzo che fu

Il film “Leo from Chicago” racconta l’infanzia americana del Papa, tra baseball, junk food e occhiali alla Blues Brothers, trasformando il pontefice in un’icona pop senza tradire la sua vocazione originaria

di Luca Arnaù

La prima immagine del documentario non è una chiesa né un archivio polveroso, ma la skyline di Chicago. Un treno merci attraversa lentamente i sobborghi, le highway lampeggiano come nervi scoperti, le luci al neon si riflettono sull’asfalto. È lì che affonda le radici la storia di Robert Francis Prevost, oggi Papa Leone XIV, il pontefice che più di ogni altro porta addosso l’impronta di una città dura e generosa. Non un profilo costruito, non un’operazione di marketing, ma l’eredità naturale di un ragazzo cresciuto nei quartieri del South Side, dove si giocava a baseball in strada e si imparava presto che per cavarsela servivano fiato, intuito e capacità di parlare anche con chi minacciava di buttarti nel fiume.

“Leo from Chicago”, prodotto dal Dicastero della Comunicazione, prova a raccontare tutto questo senza filtri. La regia alterna immagini d’archivio e interviste ai fratelli Louis e John, che ricostruiscono un’infanzia fatta di bici, preghiere, Ford smontate in cortile e hamburger divorati con l’entusiasmo di un ragazzino americano degli anni Settanta. La prima pagina del Chicago Sun Times che appare in video è un piccolo manifesto di stupore collettivo: “Da Pope!”, con quel “the” prima di “Pope” scritto nello slang cittadino per dire che sì, era davvero successo. Un concittadino era diventato Papa.

Eppure, nella storia di Prevost, tutto sembra segnato da una naturalezza disarmante. Alla nascita la culla stava in sala da pranzo; dopo cena i genitori recitavano il rosario, e la madre andava a messa ogni mattina alle sei senza mancare un giorno. L’educazione cattolica non era un’imposizione, ma un ritmo, un’aria domestica. Rob, dicono i fratelli, aveva un solo gioco vero: preparare l’asse da stiro come fosse un altare, stendere una tovaglia e celebrare messa in cantina. Non era una fantasia infantile, conosceva già tutte le preghiere in latino e in inglese. Una suora, un giorno, glielo disse davanti alla classe: “Robert Francis, un giorno potresti diventare Papa”. E tutti scoppiarono a ridere.

La sua normalità resta il filo rosso di tutta la narrazione. Un ragazzo che aggiustava da sé l’olio e le candele della sua Ford, che aveva una passione feroce per i White Sox, che aspettava l’uscita di “The Blues Brothers” come un evento. A distanza di anni, una fotografia lo immortala con gli occhiali scuri identici a quelli di John Belushi e Dan Aykroyd: una posa innocente, quasi un’imitazione spontanea, che oggi assume un sapore profetico. Per qualcuno, Leone XIV è davvero “in missione per conto di Dio”, parafrasando la battuta più celebre del film.

C’è anche un aneddoto che definisce la sua personalità più di mille discorsi. Louis, il fratello maggiore, racconta la volta in cui lo portò a Beaubien Woods, una gita avventata fatta di burroni e sentieri nascosti. Lì finirono circondati da una gang di ragazzini che pretendevano le loro bici e minacciavano di buttarli nel fiume. Il pericolo era reale, i due erano soli, ma il piccolo Rob scese dalla bici e disse: “Lascia che ci parli io”. Dieci minuti dopo, erano tutti amici. Di che cosa avesse parlato, non lo si è mai capito. E forse non importa. È la traccia di un talento naturale: parlare alle persone, intuire cosa temono, cosa desiderano, cosa li calma.

Il documentario scorre su questa doppia linea: da un lato il ragazzo cresciuto nel crocevia culturale di Chicago, dall’altro l’uomo che non ha mai cercato una carriera ecclesiastica, ma l’ha incontrata strada facendo. Potrebbe sembrare retorica, ma le testimonianze degli amici lo confermano: Prevost non voleva brillare, non puntava a titoli accademici prestigiosi, non cercava incarichi di potere. Avrebbe potuto insegnare, sì, e in università importanti. Avrebbe potuto dirigere centri teologici o ricoprire ruoli chiave in diocesi influenti. Ma niente di tutto questo lo attirava. Scelse invece la strada più scomoda: diventare missionario in Perù.

Decenni tra le comunità più povere, fra coste battute dal vento pacifico, parrocchie isolate, villaggi dove la fede è insieme sostegno e fatica quotidiana. Una missione vissuta senza eroismi, raccontano nel documentario, ma con una calma operosa, la stessa di quel bambino che parlava con le gang. È lì che spuntano la leadership naturale, la capacità di ascolto, il rispetto silenzioso che genera consenso. Qualità che portarono l’ordine agostiniano a eleggerlo generale per dodici anni.

Eppure, agli inizi del 2023, Prevost era ancora soltanto il vescovo di una diocesi remota, affacciata sul Pacifico. Nessuno, né a Chicago né a Roma, immaginava un cammino più grande. Poi arrivò la chiamata di Francesco, il Dicastero dei vescovi, la porpora cardinalizia, e appena venti mesi dopo l’elezione nella Sistina.

“Leo from Chicago” non vuole mitizzarlo, né trasformarlo in un personaggio da fumetto. Ma mette in scena un pontefice che viene da un altrove molto diverso. Un uomo cresciuto fra rosari recitati dopo cena e panini grondanti formaggio, fra le highway illuminate e gli altari improvvisati in cantina. Un Papa che ha sempre creduto, senza mai voler emergere. Un uomo che – come suggerisce quel vecchio fotogramma con gli occhiali neri – sembra davvero arrivato qui perché “in missione per conto di Dio”, ma senza averla mai cercata.