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30/04/2025 ore 13.29
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Pizzaballa, il patriarca della Terra Santa che non piace alla Curia (ma potrebbe diventare Papa)

Il francescano bergamasco, oggi Patriarca di Gerusalemme, è tra i papabili italiani al prossimo Conclave: uomo di dialogo, estraneo ai giochi di potere vaticani, ma con una visione precisa

di Luca Arnaù

Ha studiato ebraico quando tutti i confratelli studiavano arabo. Ha celebrato messa in ebraico nella Gerusalemme del sospetto, quando parlare agli israeliani era visto come un tradimento. Si è offerto ostaggio ad Hamas dopo il massacro del 7 ottobre. E oggi, mentre il Conclave si avvicina, il suo nome circola con sempre maggiore insistenza nei corridoi che contano, anche se il diretto interessato, com’è nel suo stile, fa finta di niente. Pierbattista Pizzaballa, sessant’anni, bergamasco, francescano, è uno dei papabili italiani più atipici che si siano affacciati sullo scenario internazionale negli ultimi decenni. Perché viene dalla Terra Santa, non da Roma. Perché ha più familiarità con i check-point israeliani che con i saloni ovattati della Curia. Perché ha costruito la sua autorità sul campo, tra cristiani assediati, fedeli in fuga e dialoghi impossibili, mentre gli altri – cardinali da salotto – cercavano visibilità tra una conferenza e un sinodo.

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Quando era un giovane frate, negli anni Novanta, la sua scelta di studiare ebraico all’università di Monte Scopus fu vista con diffidenza. Allora dominava ancora la linea del patriarcato arabo, incarnata da Michel Sabbah. I cristiani di Gerusalemme erano per lo più palestinesi, e il nuovo corso vaticano aperto al dialogo con il mondo ebraico, inaugurato da Giovanni Paolo II, non era ben digerito. Gli accordi di Oslo non avevano ancora prodotto risultati e il patriarcato latino faticava a uscire da una logica di appartenenza etnica e politica. In quel contesto, Pizzaballa sembrava una scheggia fuori posto. Ma lui andava avanti. Tradusse i testi liturgici in ebraico per i pochi cattolici israeliani, studiò i profeti, approfondì la teologia ebraica, diventando un ponte vivente tra due mondi che non si parlavano. Non era una posa, era convinzione. Una convinzione nata in una famiglia cattolica di provincia, con una fede semplice, concreta, radicata nella vita. E che si è fatta metodo, missione, visione.

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Quando divenne Custode di Terra Santa nel 2004, dopo vent’anni passati in Israele, era già una figura centrale nella fragile architettura religiosa di Gerusalemme. Negli anni successivi ha imparato a muoversi tra governi ostili, diplomazie infide, equilibri interni delicatissimi. Ha aperto canali con le autorità israeliane senza mai rinunciare a denunciare i soprusi dei coloni. Ha dialogato con i musulmani, senza chiudere gli occhi davanti agli estremismi. E ha parlato ai cristiani rimasti, cercando di dar voce a una comunità ridotta all’osso, spesso dimenticata da Roma. Nel 2016 fu lui a organizzare in Vaticano l’incontro tra Shimon Peres e Mahmoud Abbas. Un evento simbolico, pieno di speranza. Oggi quell’incontro sembra lontanissimo, come se appartenesse a un’altra epoca.

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Da patriarca latino di Gerusalemme, nominato nel 2020, ha conosciuto una realtà sempre più insanguinata. Ha visto la seconda Intifada, la costruzione del muro, la radicalizzazione degli uni e degli altri. Ha denunciato la violenza di Hamas, ma ha avuto anche il coraggio – rarissimo – di dire che «l’attacco del 7 ottobre non è avvenuto nel vuoto». E proprio quella frase, che a molti in Israele non è piaciuta, rivela la cifra della sua leadership: non si schiera mai con il più forte. Sa che la verità è più complicata di quanto certi governi o certe Curie vorrebbero far credere. E per questo, spesso, è scomodo.

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Il 16 ottobre del 2023, mentre le forze israeliane si preparavano alla devastazione di Gaza e il mondo cercava ancora ostaggi vivi nei kibbutz massacrati, Pizzaballa si è offerto volontario: «Mi consegno io, in cambio della liberazione dei prigionieri civili». Un gesto simbolico, che non ha avuto seguito, ma che ha fatto il giro del mondo. Perché mentre altri parlavano, lui faceva. E anche oggi, quando parla della guerra in corso, non ha paura di denunciare: «La religione è stata strumentalizzata dalla politica», dice. Lo ha ripetuto anche nella sua omelia nella notte di Natale a Betlemme, davanti ai cristiani che vivevano sotto le bombe. Una messa che è diventata un atto politico. Una denuncia chiara, indirizzata a Netanyahu e ai suoi ultranazionalisti. Ma anche un appello alla speranza: “Serve un nuovo dialogo, anche se sembra impossibile”.

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In questo, Pizzaballa è l’esatto contrario dei cardinali da palazzo. Non traffica in alleanze curiali, non maneggia intrighi vaticani, non ha gruppi di potere alle spalle. È amico di Francesco, ma non è un suo clono. È conservatore nella dottrina, ma rivoluzionario nei gesti. È fedele alla Chiesa, ma senza diplomazie da sacrestia. È un uomo che ha imparato a parlare ebraico per avvicinarsi all’altro. E che oggi, se venisse eletto Papa, porterebbe con sé una Chiesa diversa: radicata nella sofferenza, capace di ascoltare, meno ossessionata dalle regole e più affamata di giustizia.

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Ha solo sessant’anni, ma l’esperienza di un veterano. Ha scritto, insegnato, studiato. È stato professore all’Università ebraica e allo Studio Biblico francescano. Ha visto intere comunità cristiane scomparire in Medio Oriente, eppure continua a credere che il dialogo sia possibile. È papabile? Sì. Anche se non gioca partite romane, anche se non ha sponsor forti tra gli italiani. Ma il suo nome torna sempre. Forse perché – tra tutti – è l’unico che ha già vissuto da Papa, senza averlo mai voluto.