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14/10/2025 ore 14.35
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«Castellucci come Lord Voldemort»: i pm chiedono 18 annii per l’ex ad di Autostrade per il crollo del ponte Morandi

La Procura di Genova chiede la pena massima per l’ex numero uno di Aspi: «Accettava il rischio dei ritardi nelle manutenzioni, pensava solo ai profitti e alla carriera»

di Luca Arnaù
Ponte Morandi

A oltre sette anni dal crollo del ponte Morandi, la ferita di Genova torna a pulsare nell’aula del tribunale. Il processo più complesso e doloroso degli ultimi anni entra nella fase decisiva: quella delle richieste di condanna. E per la Procura di Genova non ci sono dubbi. L’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia Giovanni Castellucci deve pagare con la pena massima. Diciotto anni e sei mesi di carcere: questa la richiesta avanzata dai pubblici ministeri Walter Cotugno e Marco Airoldi al termine di una requisitoria fiume che ha ripercorso anni di omissioni, negligenze e scelte aziendali dettate, secondo l’accusa, più dal profitto che dalla sicurezza.

«Tutti gli indicatori per lui sono negativi», ha scandito il pm Cotugno, parlando davanti a un’aula gremita. «Prima della sentenza ThyssenKrupp il suo sarebbe stato un caso di dolo eventuale da manuale, poi quella sentenza ha cambiato il quadro. Ma se non per Castellucci, quando, a chi dovremmo dare il massimo della pena?».

Nel suo intervento il magistrato ha ripercorso con tono severo le tappe di una gestione che, secondo la Procura, avrebbe sacrificato la manutenzione della rete autostradale sull’altare dei dividendi. «Nonostante Avellino e i suoi 40 morti, Castellucci cosa fa?», ha proseguito. «Continua in maniera agghiacciante a disporre le ispezioni sulla rete allo stesso modo. Accetta un rischio da ritardo nelle manutenzioni, come era scritto nel catalogo dei rischi. Ambiva al profitto, al prestigio personale, ai benefits, alla carriera. Gli piaceva il ruolo del manager rampante che garantiva dividendi enormi. E Aspi era la sua gallina dalle uova d’oro».

Le parole del pm sono risuonate come un atto d’accusa non solo contro l’uomo, ma contro un intero sistema. «Può un amministratore delegato non occuparsi della sicurezza della sua azienda quando questa sicurezza è parte stessa della sua missione?», ha chiesto Cotugno alla corte. «Non si tratta di un incidente imprevedibile. Si tratta di una lunga catena di scelte consapevoli».

Il tono si è fatto più tagliente quando il magistrato ha descritto la posizione di potere che, a suo dire, Castellucci esercitava dentro la società: «Dentro Aspi non si poteva neanche nominare il suo nome, come Lord Voldemort. Quando i dirigenti scrivevano tra loro, mettevano i puntini al posto del nome. Questo è il livello di timore e di sudditanza che esercitava».

L’ex manager, oggi detenuto nel carcere di Opera per la condanna legata alla strage di Avellino, non era collegato in videoconferenza, come in altre udienze. Ma la sua assenza non ha attenuato la tensione in aula. La Procura ha tracciato un quadro durissimo, sostenendo che la tragedia di Genova fu il frutto di un sistema basato su “una consapevole accettazione del rischio” e “una politica di manutenzione negligente e tardiva”.

Durante una breve sospensione dell’udienza, Egle Possetti, portavoce del Comitato in ricordo delle vittime, ha parlato ai cronisti con voce ferma ma emozionata. «Siamo frastornati, ma anche soddisfatti. Il pm ha fatto un discorso lucido, lineare, che ha messo in evidenza le responsabilità enormi di chi per anni ha ignorato segnali chiari. La richiesta di una pena così alta è importante per noi, perché riconosce la gravità di quello che è accaduto. Ovviamente sappiamo che, per ragioni legate all’età, Castellucci potrà ottenere benefici, ma ciò che conta è la condanna. È un passo verso la giustizia».

Di tutt’altro tono la replica della difesa. Guido Carlo Alleva, avvocato di Castellucci insieme a Giovanni Accinni, ha definito la richiesta della Procura «spaventosa». «Mi inorridisce – ha dichiarato –. È una pena che non posso accettare nel merito. Ma ciò che trovo più grave sono le valutazioni personali, le espressioni sul carattere e sulla personalità del mio assistito. In un processo penale non dovrebbero entrare giudizi soggettivi, tanto più in un contesto di reati colposi. Si è andati molto oltre il perimetro della giustizia».

Il processo per il crollo del ponte Morandi, iniziato nel 2021, coinvolge 57 imputati tra ex dirigenti e tecnici di Autostrade per l’Italia, della controllata Spea e funzionari del ministero delle Infrastrutture. L’accusa parla di un «disastro annunciato», in cui ognuno avrebbe avuto un ruolo nella catena di omissioni che portò al cedimento dello strallo della pila 9 del viadotto Polcevera. Era il 14 agosto 2018 quando, sotto una pioggia battente, oltre duecento metri di autostrada collassarono nel vuoto. Morirono 43 persone, intere famiglie, bambini, lavoratori diretti o di passaggio.

Nella sua ricostruzione, il pm Cotugno ha ricordato che «non siamo abituati a questo livello di gravità. Non ci è mai capitato, in casi di reati colposi, di vedere così tanti morti. E qui le responsabilità si intrecciano tra tre organizzazioni complesse: Aspi, Spea e il ministero. Diversi livelli gerarchici, differenti compiti, ma tutti accomunati da un’omissione costante e sistematica».

Il magistrato ha sottolineato come, al di là delle polemiche, la gravità del fatto debba prevalere su ogni altra considerazione: «Quale sia la pena giusta non lo sa nessuno. L’unica cosa che ci guida è la legge. Ma qui non si tratta solo di errori tecnici: si tratta di aver anteposto gli interessi economici alla sicurezza di milioni di persone. E questo è inaccettabile».

Sul banco degli imputati restano figure centrali dell’ingegneria e della dirigenza pubblica italiana, accusate di aver ignorato report, segnalazioni e studi che già negli anni precedenti al crollo evidenziavano criticità strutturali gravissime. I pubblici ministeri hanno spiegato che i difetti del ponte erano “noti e documentati”, ma le misure necessarie furono continuamente rimandate.

Oggi, dopo più di tre anni di dibattimento, decine di perizie e centinaia di udienze, il processo si avvia alla conclusione. Per Genova e per le famiglie delle vittime, è l’ultima possibilità di ottenere una forma di giustizia. Una giustizia che, come ha ricordato la stessa Possetti, «non potrà mai restituire ciò che abbiamo perso, ma può almeno restituirci la dignità della verità».