Sanremo 2026, il Festival dei “chi è?”: cast debole, occhiolino alle etichette e nostalgia per l’anno di Brunori
I 30 artisti in gara totalizzano 29,4 milioni di ascoltatori mensili e 330 dischi di platino, quasi la metà del 2025. Un cast percepito come fagocitato dalle case discografiche, con poco appeal, che fa già rimpiangere quello dello scorso anno
Il Festival di Sanremo 2026 sta cambiando pelle, ma non è detto che al pubblico piaccia la nuova veste. La gestione Carlo Conti imbocca una strada che, nei numeri, segna un netto ridimensionamento rispetto alle ultime edizioni e, nella percezione, appare come un festival sempre più eterodiretto dalle case discografiche e sempre meno dal buon senso musicale. Il cast di quest’anno, presentato come frutto di una selezione attenta, è già bollato da molti come il più debole degli ultimi anni: volti poco riconoscibili, nomi intercambiabili, un’aria da talent show di seconda fascia che fa rimpiangere il recente passato, quando sul palco dell’Ariston trovavano spazio anche artisti come Bresh, Brunori Sas e Lucio Corsi, diventati rapidamente simbolo di una qualità possibile.
I numeri di Spotify dicono molto più di mille conferenze stampa. I 30 artisti in gara nel 2026 sommano 29,4 milioni di ascoltatori mensili, un dato che segna un crollo evidente rispetto al 2025, quando il cast sfiorava i 52,8 milioni, e al 2024, che superava i 54 milioni. È una riduzione vicina al 45%, di fatto un ritorno ai livelli del 2022 e del 2023 (31,2 e 33,6 milioni), ma con una differenza sostanziale: allora il calo era il prezzo di una ricerca più rischiosa, oggi dà la sensazione di un paradosso, con cast “di nicchia” scelto non tanto per coraggio artistico quanto per convenienza di catalogo. Il colpo d’occhio è chiaro: molto meno star power, molta meno riconoscibilità, molta più fatica a costruire curiosità nella platea generalista.
Lo stesso ridimensionamento emerge dal confronto sulle certificazioni. I 30 nomi del 2026 portano in dote 330 dischi di platino, meno della metà dei 695 del cast 2025 e ben lontani dai 512 del 2024. Anche qui si torna a valori simili al 2023 (341 certificazioni), ma con un sapore diverso: quell’anno sembrava una pausa di riflessione, questa volta l’impressione è di un festival che arriva al via già sottotono. Il cast rischia di non reggere il peso del marchio “Sanremo”, soprattutto dopo edizioni in cui la kermesse era riuscita a tenere insieme numeri, esposizione mediatica e qualche vera gemma autoriale.
Qualcuno, comprensibilmente, invita alla prudenza. Enzo Mazza, ceo di Fimi, ricorda all’Adnkronos che «come sempre noi attendiamo i risultati dello streaming dopo il festival perché è quello che determina il successo o meno di un’edizione». È un richiamo utile: contano le canzoni, non solo i curricola digitali di chi le porta. Negli ultimi anni è capitato che brani inizialmente sottovalutati esplodessero dopo la gara, cambiando le proporzioni del giudizio complessivo. Ma stavolta la partenza è talmente in salita che neppure questo invito alla calma basta a spegnere il malumore.
Sui social, infatti, la narrazione si è già cristallizzata. Il cast viene definito “troppo di nicchia” da chi, in realtà, non chiede un Sanremo di sola hit factory ma almeno qualche certezza, qualche nome in grado di spostare davvero l’ago della curiosità. Al contrario, la sensazione dominante è quella di un elenco di artisti scelti per compiacere equilibri discografici più che per comporre un quadro forte. Fagocitati dalle etichette, molti dei nomi in gara sembrano destinati a perdersi in un rumore di fondo indistinto. Ed è qui che si scatena la nostalgia: non solo per l’epoca Amadeus, ma per il “Sanremo di Conti che funzionava”, quello in cui la presenza di un buon mix di canzoni d’autore e motivi radiofonici da hit parade dava il segnale che qualcuno, in cabina di regia, un’idea di qualità ce l’aveva ancora.
Sanremo 2026, fuga dai big e cast in bilico: l’anno più difficile del Festival di Carlo ContiIl rischio più citato è che il Festival finisca per assomigliare a un talent show lungo cinque sere, con il palco dell’Ariston ridotto a vetrina per debutti mascherati da consacrazioni. Troppi nomi poco noti al grande pubblico, troppo pochi quei profili capaci di tenere insieme generazioni diverse. Per alcuni si tratta di un ritorno allo spirito originario, quando Sanremo era anche scoperta; per altri è un vero e proprio downgrade, che rischia di far perdere centralità alla kermesse rispetto al resto dell’offerta musicale e televisiva.
Alla fine, come sempre, la sentenza spetta alle canzoni. Sarà la qualità dei brani – più che la debolezza iniziale del cast – a decidere se questa edizione potrà essere rivalutata o se verrà ricordata come l’anno in cui il Festival ha davvero cominciato a somigliare a una lunga serata di provini. Se gli streaming post-gara smentiranno i numeri di partenza, Carlo Conti potrà rivendicare la scelta di aver puntato “sulla musica”. Se invece gli ascolti e le piattaforme confermeranno la sensazione di povertà di appeal, la sua linea artistica finirà inevitabilmente sotto accusa. E il paragone con le stagioni in cui sul palco dell’Ariston coesistevano grandi numeri e canzoni come “L’albero delle Noci” e “Volevo essere un duro” diventerà ancora più imbarazzante.
Per ora resta un dato: Sanremo 2026 parte con un cast che non scalda, cataloghi discografici che sembrano dettare la linea e un direttore artistico che rischia di essere ricordato più per i “chi è?” che per le scelte di coraggio.