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12/11/2025 ore 12.33
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Sarajevo, quando l’Europa trasformò la guerra in intrattenimento

Un’inchiesta italiana riapre la pagina più oscena del nostro continente: uomini benestanti pagarono per uccidere civili durante l’assedio. Non fu follia. Fu scelta.

di Raffaele Florio

C’è un capitolo della guerra di Bosnia che solo oggi torna a emergere, sporco di sangue e di denaro. Durante l’assedio di Sarajevo, tra il 1993 e il 1995, uomini facoltosi provenienti da diversi Paesi europei — anche dall’Italia — avrebbero pagato cifre tra i 100 e i 200 mila euro per «provare l’emozione di sparare» sui civili. Un turismo dell’orrore organizzato con la complicità di milizie serbo-bosniache, in un’epoca in cui l’Europa discuteva di pace ma tollerava l’indicibile.

Le prime tracce

L’indagine aperta dalla Procura di Milano, su impulso di un esposto presentato dallo scrittore Ezio Gavazzeni e dagli avvocati Nicola Brigida e Guido Salvini, cerca di dare concretezza a quello che per anni era sembrato solo un mito atroce: il “Safari di Sarajevo”. Le prime verifiche parlano di almeno cinque cittadini italiani che, attraverso intermediari nei Balcani, avrebbero acquistato veri e propri “pacchetti di guerra”: trasferimento, vitto, alloggio e armi incluse. Una volta giunti sulle colline che dominavano la città, gli ospiti venivano accompagnati dai miliziani e invitati a “giocare alla guerra”. Sparavano da postazioni militari contro qualunque cosa si muovesse nella città assediata: donne, bambini, anziani. Il tutto documentato, a volte, con fotografie da portare a casa come trofei.

Il tariffario dell’orrore

Secondo alcune testimonianze raccolte dal documentario Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Županič, l’orrore aveva un listino prezzi. Colpire un bambino costava di più, perché «più a effetto». Un uomo armato, meno. Gli anziani si potevano colpire «gratis». Una follia che trasformava la guerra in un business e la morte in una forma di intrattenimento per ricchi annoiati. Fonti balcaniche indicano che gli introiti venivano spartiti tra intermediari e milizie, alimentando il finanziamento di operazioni militari durante l’assedio.

Gli italiani coinvolti

L’inchiesta milanese ipotizza il reato di omicidio plurimo aggravato da crudeltà e motivi abietti. Si lavora all’identificazione di alcuni cittadini italiani coinvolti, forse imprenditori o ex militari in pensione, oggi ultrasettantenni. I magistrati intendono verificare il tracciato dei voli, gli accessi nelle zone di guerra e la rete logistica che permetteva ai “turisti della morte” di muoversi tra Italia e Balcani nonostante l’embargo internazionale. Determinante sarà la collaborazione con la magistratura bosniaca e con l’ICTY dell’Aia, che possiede archivi e testimonianze sui crimini commessi durante l’assedio.

Sarajevo, la ferita che non guarisce

Tra il 1992 e il 1996, Sarajevo è rimasta sotto assedio per 1.425 giorni: oltre 11.000 morti, di cui 1.600 bambini. Una città europea intrappolata nella fame, nei bombardamenti, nel gelo. E, ora si scopre, anche nel mirino di chi pagava per divertirsi a uccidere. Il “Safari” non fu solo un crimine, ma il simbolo dell’abisso morale in cui può cadere una società che trasforma la guerra in spettacolo.

Il silenzio e le responsabilità

La vicenda interroga anche l’Europa, che negli anni Novanta preferì guardare altrove. Mentre i cecchini sparavano dai tetti, le cancellerie europee discutevano di tregue e corridoi umanitari. Ma a pochi chilometri di distanza, uomini con passaporti comunitari si mettevano in fila per sparare sui civili. È difficile credere che nessuno sapesse. È più probabile che molti abbiano scelto di non vedere.

C’è chi ha visto. E ha parlato.

Dietro questa storia emergono ora testimonianze che gettano luce su un sistema strutturato, fatto di contatti, di denaro e di silenzi. Un meccanismo che, secondo gli inquirenti, non poteva funzionare senza appoggi logistici e politici nei Paesi d’origine dei partecipanti.

«Venivano da noi con le valigie piene di soldi»

A parlare, nel documentario Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Županič, è un ex ufficiale serbo-bosniaco oggi residente in Slovenia. Racconta di aver accompagnato personalmente diversi stranieri sulle alture di Grbavica, uno dei quartieri più colpiti dall’assedio:

«Erano uomini maturi, ben vestiti, con accenti diversi. Pagavano in contanti, in marchi tedeschi. A volte restavano un giorno, a volte un weekend intero. Sparavano, ridevano, scattavano foto. Poi tornavano negli alberghi di Pale, come turisti qualsiasi.»

Un’altra testimonianza, raccolta da un giornalista locale e trasmessa alla procura bosniaca, parla di un “intermediario italiano”, un uomo che avrebbe organizzato viaggi dall’Italia settentrionale alla Serbia, da cui i “clienti” venivano poi condotti oltre confine con documenti falsi. Gli investigatori stanno tentando di verificare se si tratti di un ex ufficiale legato a compagnie di sicurezza private nate negli anni Novanta, in un’epoca in cui il confine tra mercenario e avventuriero era labile.

Le tracce italiane

Secondo fonti giudiziarie, almeno cinque nomi italiani compaiono nei dossier preliminari trasmessi a Milano. Alcuni sarebbero stati identificati grazie a testimonianze e vecchi archivi doganali, altri attraverso i registri di voli charter partiti tra il 1993 e il 1994 da aeroporti del Nord Italia con destinazione Belgrado o Banja Luka. Si tratterebbe di uomini d’affari, ex militari o collezionisti di armi con un passato in ambienti paramilitari. Per ora non ci sono accuse formali, ma la procura sta verificando le possibili responsabilità per concorso in omicidio e violazione dell’embargo sulle armi.

Un magistrato vicino all’indagine, che chiede l’anonimato, afferma:

«Non parliamo di fantasie. Ci sono prove logistiche, transazioni economiche e testimonianze convergenti. Il problema è che molti protagonisti oggi sono morti o molto anziani, e i fatti rischiano di perdersi nel tempo. Ma non possiamo permetterci un nuovo silenzio di Stato».

I canali del denaro

Le somme pagate dai “turisti della morte” sarebbero state gestite da intermediari balcanici attraverso conti cifrati in Svizzera e Liechtenstein. Parte del denaro serviva a finanziare le milizie serbo-bosniache, il resto veniva spartito tra i facilitatori. È uno schema già visto in altri conflitti, ma che in questo caso assume una dimensione mostruosa: non solo mercenari pagati per combattere, ma civili paganti per uccidere. Un rovesciamento etico totale, che l’Europa dell’epoca non volle — o non seppe — riconoscere.

Il silenzio delle istituzioni

Nessun archivio ufficiale parla di questi viaggi. Né i servizi segreti occidentali, né le missioni dell’ONU hanno mai documentato episodi simili. Eppure, secondo diverse fonti militari, la presenza di stranieri armati nelle zone controllate dalle milizie era nota agli osservatori internazionali:

«Sapevamo che c’erano “ospiti”. Non potevamo intervenire. La linea ufficiale era che fossero mercenari, ma non lo erano: erano dilettanti con il portafoglio pieno e la coscienza vuota», ha dichiarato un ex funzionario ONU al quotidiano bosniaco Oslobođenje.

L’Europa davanti allo specchio

A trent’anni dai fatti, questa inchiesta scuote le fondamenta della memoria europea. Non si tratta solo di stabilire chi premette il grilletto, ma di comprendere come sia stato possibile che uomini provenienti da Paesi civili, educati e liberi, abbiano scelto di pagare per la morte altrui. Un’Europa che nel 1993 discuteva di allargamento e di diritti umani, mentre dentro le sue stesse frontiere qualcuno organizzava cacce all’uomo a pagamento. La giustizia farà il suo corso, ma la domanda resta: quanto abbiamo voluto non sapere? Perché Sarajevo non è solo una ferita della Bosnia: è una colpa dell’Europa intera. E ogni colpa, se non riconosciuta, è destinata a ripetersi.

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