Lo sciopero per Gaza divide il Paese: governo e sindacati al muro contro muro, il diritto di protesta diventa terreno di scontro
Il Garante lo dichiara illegittimo, Meloni ironizza, Salvini vuole inasprire le sanzioni. Landini e Schlein
replicano: «Non si scherza coi diritti costituzionali»
In un Paese stremato da crisi economiche e tensioni sociali, bastava poco per far saltare i nervi. È bastata Gaza. O meglio: la decisione di Cgil e Usb di trasformare l’arrembaggio alla Flotilla in uno sciopero generale. Un gesto che voleva essere di solidarietà internazionale e che invece ha fatto esplodere uno dei nervi più scoperti della politica italiana: il diritto di sciopero.
Non è un dettaglio tecnico, ma un nodo che tocca la spina dorsale della nostra democrazia. La Commissione di garanzia lo ha bollato come «illegittimo». Il governo lo ha trattato come una provocazione. Giorgia Meloni ha alzato il sopracciglio con sarcasmo: «Weekend lungo e rivoluzione non stanno insieme». Parole che dicono molto: il diritto di protesta viene derubricato a un capriccio da ponte festivo.
Per Maurizio Landini, invece, è un insulto. «Chi parla di weekend lungo offende i lavoratori», ha detto il segretario della Cgil. Dietro la sua risposta non c’è solo la difesa della manifestazione del 3 ottobre, ma un’idea di fondo: se il diritto di sciopero diventa un privilegio da concedere o meno a seconda delle convenienze del potere, allora qualcosa si è rotto.
Sciopero per Gaza e la Flotilla: la Cgil Catanzaro-Crotone-Vibo pronta a scendere in piazza: «Faremo sentire la nostra voce»La premier, il vicepremier Salvini, il Garante: tutti parlano di regole, legittimità, sanzioni. Ma in piazza non ci saranno solo sigle sindacali. Ci sarà anche il Partito democratico, per voce di Elly Schlein, che ha scelto di schierarsi apertamente: «Il Pd sarà in piazza, giù le mani dal diritto di sciopero e dai diritti dei lavoratori». Un gesto che trasforma un atto sindacale in un test politico.
Ecco il punto: Gaza è la miccia, ma il barile di polvere è tutto italiano. Da una parte il governo, che cerca di accreditarsi come garante dell’ordine contro il caos. Dall’altra i sindacati e le opposizioni, che agitano lo spettro di una democrazia mutilata. Nel mezzo milioni di cittadini che rischiano di trovarsi bloccati nei trasporti, nei servizi, negli ospedali.
La partita non si gioca solo nelle strade. Matteo Salvini lo ha già detto chiaro: al prossimo Consiglio dei ministri porterà una stretta sulle multe per chi viola le regole sugli scioperi. È la sua risposta a Usb e Cgil. Non un confronto, ma un irrigidimento normativo. Come se la protesta potesse essere spenta a colpi di sanzioni.
Eppure, la forza dello sciopero non sta nella legittimità formale certificata da un garante. Sta nel consenso, nella capacità di mobilitare corpi e voci. E su questo il 3 ottobre dirà molto. I Cobas ricordano che l’agitazione era stata proclamata già il 23 settembre. Landini rivendica la copertura della Costituzione. Gli studenti annunciano cortei e occupazioni. Le piazze sono pronte a riempirsi.
Il diritto internazionale è morto stanotte. Flotilla bloccata, attivisti arrestati: quando la legge cede all’arbitrioC’è poi un paradosso che rischia di sfuggire: mentre gli attivisti della Flotilla fermati in Israele hanno davanti solo due strade – firmare una dichiarazione di colpevolezza per lasciare subito il Paese o affrontare un processo-lampo prima del rimpatrio forzato – in Italia non rischiano nulla. Nessuna norma penale può trasformare un gesto civile e pacifico in «atto ostile» contro uno Stato estero. Lo ha chiarito la giurisprudenza: la disobbedienza civile non è guerra.
Ma se i pacifisti non rischiano il carcere, a rischiare grosso potrebbe essere il diritto di sciopero. Perché quello che si consuma oggi è un braccio di ferro sul confine della democrazia: fino a che punto un governo può spingersi nel limitare le forme di protesta? E fino a che punto i sindacati possono usare la solidarietà internazionale come leva politica interna?
Domande che pesano più di un comunicato del Garante, più di una battuta sarcastica o di una delibera di precettazione. Perché mettono in gioco un equilibrio fragile. Gaza diventa lo specchio, la Flotilla il detonatore, ma la sostanza è tutta italiana.
Perché a portare anche Gaza dentro gli italici confini ci ha pensato la stessa premier, vivendo (e commentando) l’avventura della flotilla come se fossa rivolta contro di lei e contro la sua maggioranza, senza tener conto che tra i cinquecento naviganti verso la Palestina c’erano cittadini di oltre trenta nazioni e solo una quarantina di italiani. Ma si sa, vittimismo a tutti i costi e governo ultimamente sono un binomio difficile da sciogliere.
Il 3 ottobre sarà un venerdì diverso. Non perché qualcuno si prenderà il weekend lungo, ma perché la piazza dirà se questo Paese ha ancora la volontà di difendere i suoi diritti fondamentali. Ed è per questo che Meloni, Landini, Schlein e Salvini lo vivono come un passaggio cruciale. Non è una guerra di numeri, ma di simboli.
Alla fine, resta una certezza: il diritto di sciopero non si misura a colpi di circolari, ma nella capacità di uomini e donne di alzare la testa. Il 3 ottobre vedremo se lo faranno. E allora non sarà più solo una questione di Gaza, ma della democrazia italiana.